Ricorda che cammini sui miei sogni

Se avessi il drappo ricamato del cielo,
intessuto dell’oro e dell’argento e della luce,
i drappi dai colori chiari e scuri
del giorno e della notte
dai mezzi colori dell’alba e del tramonto,
stenderei quei drappi sotto i tuoi piedi:
invece, essendo povero, ho soltanto sogni;
e i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;
cammina leggera perché
cammini sopra i miei sogni.

William Butler Yeats

Kyoto, estate 2014. E’ sera e sto camminando nel mercato di Nishiki, animato luogo nel cuore della città. Sono felicemente stordita da questa seconda occasione con Kyoto, anche se il caldo, la forte presenza di turisti (e dire che allora rispetto ad oggi non erano nemmeno tantissimi) e qualche inconveniente sembrano voler rendere non proprio del tutto perfetto il viaggio. Sto parlando con mio marito di come, secondo me, gli abiti tradizionali giapponesi riescano ad essere portati nel modo adeguato solo dalle giapponesi, e come anche tra le giapponesi stesse non tutte, soprattutto le ragazze più giovani, sembrino a loro agio in kimono, forse perché oggigiorno esso è limitato ad occasioni specifiche o a certi contesti.

Brontolo come una pentola di fagioli, più tra me e me che con lui, su come mi dia fastidio vedere donne occidentali vestite da geisha per farsi foto in giro per la città: per me le geisha sono avvolte da un’aura quasi sacra, ci sono anni e anni di dedizione e duro lavoro dietro al loro aspetto soave e perfetto, e volerle imitare solo per farsi la foto mi sembra del tutto irrispettoso. Sì, anch’io nel mio primo viaggio mi ero presa una sorta di yukata e mi ero fatta qualche foto, ma in casa mia. Di certo non vado in giro per una città giapponese, soprattutto se nemmeno c’è una qualche occasione particolare in cui effettivamente si dovrebbero o potrebbero indossare gli abiti tradizionali, usando i luoghi di cui magari manco so niente in quanto a storia, come palcoscenico per delle foto in cui mi atteggio a geisha. Mi sembra di assistere al corrispettivo di quei turisti che nella Venezia odierna girano per tutto l’anno in maschera e tricorno.

Mentre sto continuando a brontolare, in quella serata afosa, incrocio una ragazza occidentale in kimono, che cammina da sola per il mercato. E’ molto alta e dalla costituzione robusta, ha una massa di capelli castani dai ricci piccoli e fitti fitti, una nuvola intorno al suo volto tondo e dalle guance rosee. Come prima cosa, penso che non stia affatto bene vestita così. Poi, però, la guardo in volto, ed incrocio lo sguardo dei suoi occhi chiari. Mi sorride, e leggo in quel sorriso un mondo di cose. La felicità per essere in un paese che la affascina. Il suo sentirsi fiera per il bell’abito rosa chiaro, con borsa e obi coordinati, che sta indossando. L’incredulità per essere proprio a Kyoto, che magari ha visto sinora soltanto nelle foto, e di essere lì portando delle vesti simili a quelle delle bellissime donne protagoniste di raffigurazioni artistiche, oppure di film, manga e anime, in cui si è imbattuta nel corso della sua vita di tutti i giorni. Il suo sentirsi bella, una creatura di sogno dentro un sogno reale.

Mi vergogno dei pensieri cattivi macinati sino a qualche minuto prima, del mio aver rinchiuso certi aspetti del Giappone tradizionale in una sorta di bolla, che non tiene conto del fatto che la tradizione è viva proprio anche per questi aspetti, perché c’è chi vuole viverla anche se apparentemente non sembra appartenergli. Ma soprattutto, mi vergogno del non aver tenuto conto dei sogni delle persone, e della bellezza del viverli, quei sogni, nei modi che si ritengono più opportuni, e che in fondo non danneggiano nessuno.

Sorrido di rimando alla ragazza, e mi sento quasi commossa da quella nuova comprensione. Sono stata arrogante a credere, inconsciamente forse, che quanto mi piace e mi appassiona sia solo mia proprietà e solo io possa comprenderne la vera essenza. Le persone basterebbe talvolta guardarle negli occhi, per voler capire cosa significhi per loro un luogo, una cultura. Siamo tutti diversi, un caleidoscopio di emozioni e punti di vista. Si comunica anche con gli sguardi, con le espressioni del volto e la gestualità, che trasmettono noi stessi agli altri. Sì, sei bellissima, le comunico ricambiando lo sguardo, e lo penso davvero.

Nella mia mente, richiamati da vecchie letture, riecheggiando gli ultimi versi di una poesia di Yeats: cammina leggera, perché stai camminando sui miei sogni. Contesti e significati diversi, ma come accade per tutte le grandi opere dell’ingegno umano, parole che restano nell’animo e giungono a commentare attimi e situazioni inaspettate. Non si calpestano con noncuranza i sogni altrui, ad essi ci si deve accostare con rispetto e gentilezza, perché i sogni sono quanto di più personale ed intimo ognuno di noi ha, e quando essi vengono espressi nella realtà, ci si trova di fronte ad una forma di coraggio che sempre merita ammirazione, non lo scherno che potrebbe mandare in pezzi il cuore di una persona, rovinando qualcosa di importante per lei.

Da allora, grazie a quanto quella ragazza mi ha insegnato nel nostro incontro, durato pochi secondi in uno sfiorarsi di sguardi e sorrisi, non giudico più con quella severità, con quello snobismo. Continuo ad essere irritata dalle persone che non rispettano i contesti (nel mio ultimo viaggio ho visto quasi scardinare degli shoji da ragazze asiatiche che volevano entrare a farsi delle foto in kimono in luoghi interdetti al pubblico), e continuo ad avere una sorta di pudore nel pensarmi in kimono a camminare lungo le vie di una città giapponese. Ma mi sono imposta di fare tesoro della lezione ricevuta, e di camminare leggera sui sogni altrui, sempre.