Chi siamo quando scriviamo?

Chi siamo quando scriviamo?

Interessante questione che, pur essendosi presentata più volte nel corso degli anni quando mi interrogavo sulla scrittura e sul mio pormi nei confronti di tale attività, è tornata a farsi viva ieri, quando ho concluso la lettura di una raccolta di scritti di Elena Ferrante “I margini e il dettato”, edito da Edizioni e/o. In particolare ho trovato ben espressa la questione della lettura come attività che influenza fortemente la scrittura, anche se non sempre ci si rende conto di quanto nasca appunto da influssi che non si penserebbe, in un primo momento, possano essersi sedimentati a tal punto da comparire sino alla superficie, tra le parole.

(…) Bisogna accettare il dato di fatto che nessuna parola è veramente nostra. Bisogna rinunciare all’idea che scrivere sia sprigionare miracolosamente una voce propria, una propria tonalità: secondo me questo è un modo svogliato di parlare dello scrivere. Scrivere invece è entrare ogni volta in uno sterminato cimitero dove ogni tomba attende di essere profanata. Scrivere è accomodarsi in tutto ciò che è già stato scritto – la grande letteratura e quella di consumo, se serve, il romanzo-saggio e la sceneggiata – e farsi, nei limiti della propria vorticosa, affollata individualità, a propria volta scrittura. Scrivere è impadronirsi di tutto quanto è già stato scritto e imparare pian piano a spendere quella enorme fortuna. Non dobbiamo lasciarci lusingare da chi dice: ecco una che ha una propria tonalità. Tutto, nello scrivere, ha piuttosto una lunga storia scritta alle spalle. Perfino il mio insorgere, il mio smarginare, il mio smaniare, è parte di una irruenza che è prima di me e che va oltre me. Perciò, quando parlo del mio io che scrive, dovrei subito aggiungere che sto parlando del mio io che ha letto, persino quando s’è trattato di lettura distratta, la più subdola delle letture. E dovrei sottolineare che ogni libro letto portava dentro di sé una folla di altre scritture che consapevolmente o inavvertitamente ho catturato.(…)

Elena Ferrante, I margini e il dettato, 2021 Edizioni e/o, pp. 94-95

Proprio così, ho pensato tra me e me non appena ho letto queste considerazioni. Si tratta di uno dei tanti motivi per cui è così importante leggere, ancor prima che scrivere. Personalmente non riesco a disgiungere queste due attività, non comprendo lo scrivere senza essere anche lettori. In un paese in cui spesso allo scrivere si attribuiscono attributi quali una sorta di ispirazione divina, di auspicabile creatività, o dove allo scrivere si dà unicamente l’aspetto di una necessità quale la confessione, lo sfogo, la testimonianza (che pur sono sfaccettature dello scrivere) in un paese in cui tanti, tantissimi vorrebbero scrivere senza però porsi la questione del leggere, credo sia utile ogni tanto ricordare che la scrittura ha nel suo nocciolo la lettura. Altrimenti, secondo me, è qualcos’altro.

Ma quindi, chi sono io quando scrivo, se quello che scrivo alla fine riecheggia sempre qualcos’altro, anche se non me ne rendo conto e credo di essere originale, di aver trovato grazie ad un presunto talento la frase e il concetto che volevo esprimere?

10 giugno 2019, Kakunodate

Sono comunque la somma di tutte le mie esperienze e del modo in cui le ho rielaborate sino a farle diventare parola scritta. Sono la somma di tutte le mie letture, delle immagini e delle suggestioni che ho incontrato e che ho interiorizzato. Una somma sempre in continuo divenire, pronta a ricevere altri addendi, con l’avanzare del tempo e degli incontri con altre letture, persone, luoghi, contesti.

Circa il chi siamo quando scriviamo, finisco per chiedermi: ha così importanza, in fondo? Oppure importa cosa scopriamo di noi quando scriviamo, il riconoscere quale parte di una me del passato è rimasta tra le parole?

Scrivere è tendenzialmente ritrovare (ed ecco qui un concetto che non è mio, ma che deriva sicuramente da letture che ho fatto nel corso del tempo, i cui dettagli nemmeno ricordo. Ma il concetto si è sedimentato e mi giunge in aiuto nell’esprimere quanto voglio dire), quindi forse proprio nella scrittura scorgiamo quanto è rimasto lì, in un recesso non troppo frequentato del nostro animo.

Io, alla fine, dovrei scomparire dalla scrittura, anche quando sto parlando di me. Perché nel momento in cui chi legge sente una corrispondenza tra la propria vita e le mie parole, quelle non sono più mie, si fanno patrimonio comune di sentimenti condivisi. Hanno messo un piccolo seme, di cui il lettore forse nemmeno si accorgerà, nel momento in cui le legge magari distrattamente. E forse, molti anni dopo, se quel lettore vorrà a sua volta scrivere, ci sarà una piccola venatura in quanto scrive che viene da quella frase letta tempo prima. Già mentre le scrivo le parole non sono più davvero mie, nel senso che sono già riemerse, e pronte a viaggiare.

La risposta quindi quale sarebbe? Non c’è. Mentre scriviamo siamo e non siamo noi stessi. Un qualcosa di strano e di una bellezza vagamente inquietante, come quando capita di vedere il sole e l’ombra candida della luna in cielo nello stesso momento, durante il giorno (ecco, anche questa immagine non è mia, ma viene da un romanzo di Antonia Byatt, dove uno dei personaggi si sentiva sempre inquieto quando assisteva a dei fenomeni di coesistenza simili).

Forse la risposta più giusta sarebbe che quando scriviamo proviamo ad essere esploratori e alchimisti di noi stessi, e di conseguenza, del mondo in cui ci troviamo a vivere.