L’estate scorsa – agosto 2017 – abbiamo soggiornato per qualche giorno a Okayama, la città dove si trova il giardino Korakuen, uno dei tre più famosi del Giappone. Città la cui prefettura si sente in questi giorni nominare purtroppo per le tragedie legate alle disastrose alluvioni.
Alloggiavamo in un albergo nei pressi della stazione, con colazione inclusa. Ma, a differenza della maggior parte delle strutture in cui abbiamo pernottato, qui la colazione non era a buffet. Dalla reception una porta in legno decorato, con un vetro anch’esso decorato con ghirigori dorati, faceva intravedere il bancone di un bar e il locale dove si poteva far colazione, presentando i ticket forniti dall’albergo. Questo piccolo locale dava anche sulla strada laterale, con un’altra porta. Ed era tutto in stile simil caffè viennese. Legno scuro, applique in ferro battuto, lampade schermate da grandi paralumi color crema, sedie e poltroncine con imbottiture di velluto, giornali a disposizione. Al banco, una graziosa giovane signora ci faceva scegliere tra tre tipi di colazione. Quella tradizionale giapponese, poi una con dei sandwich, e una con dei toast. Poi si poteva scegliere cosa bere. Era lei stessa a preparare sul momento la colazione e portartela poi al tavolo. Il tutto con una certa lentezza che risultava anche gradevole, mentre aspettavi ascoltando la musica classica europea di sottofondo.
I tipi di colazione proposta erano tutti buonissimi e curatissimi, nonostante l’impatto iniziale con la scelta limitata ci avesse posto qualche dubbio. Ricordo lo spessore morbido e la dolcezza del burro su un toast enorme cucinato alla perfezione, la freschezza dell’insalata nel sandwich presentato in triangolini della giusta misura. E il bicchiere alto di tè freddo che sceglievo, dove il latte che versavo creava delle venature vive che rendevano l’arancio intenso del tè simile al marmo, prima che i due liquidi si amalgamassero in un bel colore caramello.
Ma quello che mi è rimasto più impresso di quelle colazioni è stata una coppia. Due anziani che non soggiornavano nell’albergo, ma venivano da fuori. Un signore e una signora che sono entrati dalla porta esterna in una mattina soleggiata di agosto. Eleganti, lei in tailleur dai colori sobri, lui in completo con giacca, nonostante il caldo. Entrambi con i capelli tra il bianco e l’argenteo e il collo sottile, l’espressione serena e sorridente. Hanno preso posto con una tranquillità che mi ha lasciato pensare fossero dei clienti abituali. Al tavolo lui ha preso un quotidiano e ha cominciato a leggere qua e là, mentre lei si guardava attorno con occhi che posso definire come sognanti, soffermandosi sui particolari dell’ambiente in cui si trovava.
Mentre li osservavo, trovandoli di una grazia ed armonia che mi faceva pensare ad una coppia di gru, ho detto a mio marito “Loro stanno vivendo in un sogno. Quando vengono qui a fare colazione, per un attimo sono in un caffè europeo. Quello che a noi sembra tanto famigliare per loro è affascinante come per noi questo paese nei suoi aspetti più tradizionali. E penso sia strano constatare che talvolta si vive la propria vita quotidiana in un contesto che è il sogno di qualcun altro. È strano ma anche bello e commovente.”
Quella coppia, che poi si vide arrivare al tavolo toast e caffè, è uno dei ricordi più significativi, tra i tanti che ho dei miei viaggi in Giappone. Mi ha reso consapevole che forse si dovrebbe essere più consci della bellezza che l’abitudine spesso non ci fa notare abbastanza. E talvolta per rendersene conto serve vederla negli occhi sognanti di qualcun altro.