Un’altra domenica di paese chiuso, un altro giorno qualunque nel corso di una pandemia che sinora, qui nel mio paese, si è portata via più di diecimila persone. E’ un numero che toglie il fiato, nel realizzarlo. Quand’è che un giorno di emergenza diventa un giorno qualunque? Non dovrebbe mai essere considerato un giorno normale, uno qualsiasi dei giorni di questo periodo di pandemia, perché ognuno di noi considera altro il vivere di tutti i giorni.
A volte temo quasi di abituarmi. Mi impongo giorno dopo giorno di non stare sempre lì a seguire ogni minima notizia che esce, come se solo avendo un quadro il più ampio possibile del male fosse possibile in qualche modo liberarsene, renderlo il più oggettivo possibile nel tentativo di arginarlo. Arrivo alla sera con il cuore più pesante di quanto già non sia, e con la mente stanca, ovattata. Troppe voci, troppo dolore, troppe opinioni vuote e polemiche, troppa energia spesa tra indignazione per le costanti fake news e la necessità di tranquillizzare chi le riceve e ti si rivolge per sapere se sia vero quanto ha appena sentito – ovviamente da canali non ufficiali. Pensi a quando si potrà tornare ad uscire senza timori, andare dove si vuole, incontrare e abbracciare le persone che ami. A quando non si avrà sempre una costante paura di come potrà essere il domani. Ci si ripete che il bene più prezioso, al momento, è la salute. Mai come in queste circostanze diviene verità, e non semplicemente qualcosa che in tempi ordinari ci si dice per consolarsi quando il resto non va proprio benissimo. Ma la mente pensa anche a tanti altri problemi accessori a quanto sta accadendo in tutto il mondo, ormai.
Ogni mattina, in quegli attimi che precedono la sveglia, resto come sospesa, domandandomi se non abbia immaginato tutto, e si tratti solo di un brutto sogno che svanisce con l’inizio del nuovo giorno. Penso che dovrò ripetere quei gesti abituali per uscire ed andare in ufficio, che la giornata sarà uno di quei tanti giorni densi di routine che a volte si trova un po’ stretta. Poi invece mi dico che no, cavolo, è tutto vero. L’angoscia mi stringe la gola, pensando ai miei cari, concentro il pensiero in una preghiera, che stiano bene, che non succeda nulla di brutto. Poi ci si alza, si inizia, si va avanti.
Molti persistono nel fare un po’ quello che gli pare, nonostante i numeri che dovrebbero essere da soli la motivazione principale per sopportare il sacrificio di non uscire e di non avere contatti con altre persone se non per esigenze reali, e nonostante la sanità implori di restare a casa. Perché per ora non c’è davvero altro modo. Nei primi giorni di questo periodo venivo presa dalla rabbia, ora non più, perché credo faccia male più a me, al mio umore e all’equilibrio di cui sono alla ricerca, piuttosto che sortire qualche effetto circa il comportamento altrui. Io posso controllare – e talvolta non sempre è possibile – quello che mi riguarda, agli altri non posso che cercare di dare l’esempio. Continuo a considerare troppe persone degli irresponsabili, ma penso anche che ciascuno dovrà rispondere verso se stesso, circa i modi in cui ha contribuito allo svolgersi di questi giorni, al loro perdurare e alle loro conseguenze. Il problema principale è sempre quello: mancanza di empatia, incapacità di comprendere la gravità di qualcosa fino a che, purtroppo, non se ne viene colpiti in prima persona. C’è la non volontà di comprendere che altri vengono danneggiati dall’approfittarsi di quanto viene concesso pensando soprattutto a chi di tali concessioni ha davvero bisogno. All’inizio pensavo che forse era dovuto al fatto che molti non sapevano cosa stesse davvero succedendo negli ospedali, perché magari non conoscevano nessuno che stesse affrontando questa guerra in prima linea, e che gliene parlasse chiaramente: poi però le voci di infermieri, medici e personale sanitario hanno iniziato a farsi sentire anche attraverso i mezzi di comunicazione cui tutti hanno accesso. A quanto pare nemmeno quello è sufficiente, nemmeno di fronte all’evidenza dell’esperienza, di fronte alle immagini strazianti che stanno accompagnando ognuno dei nostri giorni, l’incoscienza si ferma. Troppi pensano sempre di essere l’eccezione, di avere le giustificazioni più valide per andare controcorrente, in quanto la minima imposizione, quand’anche sacrosanta e per il bene comune, viene sempre vista come qualcosa da aggirare, da interpretare, per sentirsi più furbi degli altri, migliori, invincibili. Per dirsi che si era tra i pochi che sapevano in qualche modo godersi comunque la vita, cavarsela meglio degli altri, anche quando tutti i “fessi” stavano chiusi in casa perché gliel’aveva chiesto il governo. In realtà è solo superficialità, del tipo più dannoso.
Dopo questa parentesi di sfogo circa chi persiste nel negare – se non a parole, con i fatti – l’emergenza che ha investito come una tempesta le nostre vite, proseguo nel cercare di migliorarmi, in questi giorni in cui il mio vivere abituale è diventato diverso. Oltre a cercare di tenere a bada la paura, cerco di pensare a quanto c’è di bello nella mia vita, e che è sempre presente. A cosa questa esperienza epocale, comune a tutti, potrà insegnarmi, quando si tornerà ad una parvenza di normalità. Quella vita quotidiana che mi sembrerà ancora più bella, preziosa, da assaporare in ogni suo momento, come e più di prima. Spero di essere una persona migliore, dopo. Di riuscire ad avere più coraggio, di non esitare o trattenermi più come sono solita fare, di bandire pigrizie ed insicurezze.
Prima e dopo la pandemia. C’è questo spartiacque nelle nostre vite, che credevamo e ci auguravamo tutti sarebbero scorse tranquille, nonostante i piccoli e grossi problemi di ogni giorno. Invece, tocca anche a noi affrontare qualcosa di gigantesco, che coinvolge tutto il mondo, quel mondo così piccolo in cui niente che riguardi un altro essere umano può davvero essere trascurato, ed insieme così grande, quando le distanze che eravamo ormai abituati a considerare facilmente percorribili tornano a farsi sentire.
Ce la faremo. Con dolore, ma si continuerà a camminare.