Gli ultimi giorni d’estate sono stati in realtà qualche giorno fa, se vogliamo seguire un calendario che ormai poco pare aderire alla realtà delle cose. Sempre più adatto, a descrivere la realtà, in tal senso, mi sembra essere quel calendario giapponese che segue il tradizionale suddividere le stagioni in 72 brevi periodi in cui la natura mostra caratteristiche sempre diverse, nel suo ciclo molto più sfaccettato di quanto vorrebbe il nostro semplificare per velocizzare tutto.
Da diversi mesi non scrivo qui nel blog, più volte ho iniziato, mettendomi di fronte allo schermo e alla pagina bianca che attendeva il mio voler parlare in modo articolato di qualcosa. Mi dicevo che avrei dovuto raccontare del nostro nono viaggio, dell’itinerario, di quanto ho visto, delle emozioni e dei ricordi che mi ha lasciato. Dare consigli, cercare di trasmettere qualche ispirazione a chi volesse prima o poi recarsi in Giappone, non con l’idea di promuovere un paese che al momento con il turismo ha il problema opposto dato dalle innumerevoli persone che seguono una moda, ma con la speranza di suggerire uno sguardo diverso. Ma finivo per chiudere senza scrivere nulla, sino ad arrivare appunto a trovarmi durante gli ultimi giorni d’estate a voler perlomeno esprimere quanto mi caratterizza in questo periodo.
Sono successe molte cose in questo viaggio, di cui conservo ricordi di esperienze meravigliose così come di momenti di difficoltà. Un viaggio in cui ho vissuto, grazie a dei cari amici, alcuni dei momenti più belli che abbia mai trascorso in Giappone, e in cui il mio rapporto con il paese stesso ha assunto delle sfumature che non avrei immaginato quando ci ho messo piede per la prima volta, ormai più di dieci anni fa.
Sin dal principio, tuttavia, mi sono messa in viaggio con l’idea che avrei, forse per la prima volta, posto dei limiti alla condivisione di quanto avrei vissuto lì nel paese che tanto amo. Si tratta di un mio sentire del momento, di questi ultimi mesi in cui sempre più mi accorgo della necessità di proteggere uno spazio intimo. Non voglio intendere con le mie parole che chi invece sceglie di condividere molto più del proprio quotidiano sbagli. Quello è il sentire della persona in questione in quel preciso momento della sua vita, derivato dalle sue valutazioni e dalle sue esperienze.
Cosa mi lasciano dunque gli ultimi giorni d’estate, in cui il ritmo della vita quotidiana tra lavoro e tempo libero ha ripreso la sua normale corsa, e in cui ho pensato molto, moltissimo, a tante cose, alle mie scelte di vita e a tutte le mie passioni e al rapporto che ho con le stesse? Mi lasciano l’idea che sia importante vivere le proprie esperienze senza pensare di dover avere per ciascuna un ritorno, come se per essere valide le esperienze dovessero avere un timbro di conferma da parte di un ente esterno a noi stessi. Non occorre esporre immediatamente, timorosi di non arrivare primi, ogni cosa che si fa o si pensa, cercando un riscontro che dia soddisfazioni temporanee che se ne vanno con la stessa velocità con cui sono state gettate al di fuori di noi. Ci sono molte cose che si dovrebbero fare soprattutto per sé stessi, per l’amore che si mette nel farle, per il piacere e la serenità che ci regalano.
C’è questo ultimo piccolo baluardo di un privato che resta davvero tale a cui credo si dovrebbe dare maggior importanza.
Gli ultimi giorni d’estate mi dicono che molti aspetti del vivere meritano delle riflessioni più profonde e prolungate rispetto all’immediatezza con cui il mondo vorrebbe le si condividesse sul social di turno, sgomitando di fatto insieme ad altri per crearsi uno spazio privilegiato nei diversi contesti del caso. Sta diventando piuttosto facile suscitare emozioni preconfezionate tramite la suggestione, così come diventa sempre più costume parlare con il tono da esperti di cose di cui non si sa assolutamente nulla, l’importante è unirsi alle centinaia di voci che stanno ripetendo in quello stesso momento la stessa cosa, con pari superficialità. Della verità o della complessità non importa molto a chi scorre una storia o un post, scocciandosi se qualcosa viene espresso in più di sei/sette parole o più di una frase o immagine ad effetto, o se quel qualcosa non corrisponde all’idea che se ne è fatto.
Quindi, a cosa porta tutta questa riflessione che ha caratterizzato la mia estate dei quarant’anni? Non vuole portare a nulla. Vuole porsi come uno dei tanti punti d’arrivo nella mia strada personale. Dal quale si riparte inevitabilmente, con aggiustamenti di rotta e nuove considerazioni.
Mai come questa volta il viaggio mi è parso non finire davvero con il ritorno a casa.