I passi dell’altro in un mondo nuovo

Tokyo, Giugno 2019

Non molto tempo fa ho guardato il famoso film “Lost in Translation”. Ricordo che durante il primo viaggio diversi dei miei compagni di viaggio lo citavano, si emozionavano nel vedere alcuni dei luoghi mostrati nel film, esprimevano il desiderio di voler sedersi nello stesso bar con vista su Tokyo, nell’hotel in cui si svolge la vicenda. Non ho mai avuto particolare interesse nel vedere a mia volta questo film, e quando l’ho fatto, più o meno due anni fa, dopo alcuni viaggi in Giappone, non mi è piaciuto granché, e ad essere del tutto sincera ancora non capisco come mai abbia avuto tutto questo successo. Si tratta di gusti puramente personali, sia chiaro. Tuttavia, qualcosa è rimasto nel mio immaginario. La sensazione di spaesamento che vivono i personaggi principali. Sentimenti che non vengono descritti a parole, ma tramite la recitazione. In quel caso si trattava di un disorientamento soprattutto interiore, che il contesto diverso non faceva altro che riflettere ed acuire. Da quando ho visto quel film, pur essendo non alla primissima esperienza in Giappone, ci sono dei momenti in cui le sensazioni che provo quando mi trovo lì riesco ad identificarle definendole “lost in translation”, e in cui il volto meraviglioso di Scarlett Johansson che osserva la città dal finestrino di un taxi commenta la situazione meglio di quando avrei mai pensato.

Mito, Giugno 2019

Ma cosa sono questi momenti? L’ultimo mi è capitato a Mito, mentre stavo visitando i giardini Kairakuen. Mio marito era rimasto nei pressi di uno degli ingressi, perché era troppo stanco per proseguire nella camminata. Lasciatolo a fraternizzare con dei pensionati seduti su una panca accanto a lui, ho cominciato a vagare da sola lungo i vialetti dai lati intricati di ume, tutti di un verde intenso in questa stagione. Gente non ce n’era, ad eccezione di due signori sui cinquanta che stavano passeggiando nei pressi del belvedere che dà sul lago, verso la città. Ad un certo punto mi sono trovata nei pressi di un edificio in stile tradizionale, oltre un cespuglio di fiori dal colore rosa talmente intenso e bello da sembrare impossibile, ed oltre una recinzione che lo separava da me, rispetto al punto in cui mi trovavo. Silenzio, solitudine. Ad un certo punto la sagoma di una persona è apparsa sulla veranda di questo edificio, che è visitabile. Si è rivolta per un attimo nella mia direzione, poi è scomparsa di nuovo all’interno. In quel momento mi sono sentita non come parte di quanto stavo vivendo, ma come un osservatore esterno, un elemento altro comparso in un paesaggio che solitamente vede altri volti, sente risuonare altre voci. Forse disturbo in qualche modo questo contesto, mi è venuto da pensare per un attimo.

Quando si visita il Giappone, soprattutto le prime volte, sembra di ritrovarsi in un altro mondo. Anche gli aspetti più quotidiani della vita sembrano funzionare in un altro modo, che appare strano, inconsueto, e per questo riempie di entusiasmo quel turista che nel viaggio spesso cerca soprattutto la curiosità, il distacco dalla propria routine. I paesaggi, che siano urbani o rurali, incastrano quegli elementi – a ben pensarci comuni a molti paesi – in un altro modo, che non sappiamo identificare con certezza, ma che si fa sentire, attraverso il risultato finale così come appare ai nostri occhi di “gente da fuori”. Si tratta dell’impronta di una cultura che come ognuna ha avuto i suoi percorsi, ha rielaborato le influenze esterne e le ha combinate con le proprie peculiarità, finendo per creare qualcosa divenuto infine suo. E in questo equilibrio dinamico, che continua a creare aspetti di questa cultura, mettiamo piede anche noi, turisti.

Kakunodate, Giugno 2019

Rispetto ad una volta, quando pensavo di dover sottolineare un mio atteggiamento differente rispetto ad altri, definendomi “viaggiatore” e non “turista”, ora invece mi piace usare proprio quest’ultimo termine. Sfrondandolo di tutte le accezioni negative di cui si è caricato negli ultimi anni, in cui si è sempre associato al tizio maleducato e sciocco che non rispetta il luogo e ne apprezza solo i lati più vuoti. Ora, quando penso al turista, e a me come turista, penso con le dovute differenze ai Grand Tour di epoca romantica, anche se in media si hanno molto meno tempo e possibilità rispetto ai personaggi che lo intraprendevano. Ecco, io sto facendo dei Grand Tour nel lontano Oriente, divenuti possibili anche per persone come me grazie alla tecnologia di quest’epoca.

La cosa a cui spesso non pensiamo, mentre osserviamo e fotografiamo quando si trova dinanzi ai nostri occhi, è che in realtà in quel momento siamo noi l’altro. Quando viviamo anche per un breve periodo di vacanza in un paese straniero ci sembra che tutto sia una sorta di sfilata delle meraviglie e delle curiosità in cui ci muoviamo. Poi, scattano quegli attimi in cui c’è una sorta di corto circuito che ci rivela che siamo noi l’elemento straniante, pur essendo diventati negli anni una visione molto comune. Quelle meraviglie, anche se alcune sono state preparate apposta per noi, sono in realtà vita quotidiana, un’altra routine dalla quale qualcuno ogni tanto ama staccarsi, magari per immergersi nella nostra. E siamo noi la cosa strana e l’elemento di novità per chi invece in quel paese vive ogni giorno.

Talvolta, quando mi trovo in Giappone, resto a lungo alla finestra dell’hotel, oppure in altri posti, ad osservare. Guardare paesaggi, ascoltare voci, comprendendo di esperienza in esperienza sempre qualcosa in più, con i discorsi che da misteriose cantilene divengono parole, mentre quei simboli così belli esteticamente cominciano a rivelare cose normalissime e magari banali. Mi piace soffermarmi anche sui gesti più semplici, leggere storie e persone attraverso i vari tipi di linguaggio, cogliere l’atmosfera che si crea intorno a loro. Tutto mi mette a mio agio, spesso come non mi sento a mio agio a casa mia. La maggior parte del tempo trascorre con questa sensazione di perfetta serenità, soprattutto da quando i viaggi hanno iniziato ad essere più di uno o due. Però – e per fortuna, aggiungerei – arrivano sempre quei momenti di completo straniamento, in cui ti rendi conto che non sei del tutto parte del contesto. Non ti verrà quasi mai fatto pesare, se non da quelle persone che si trovano a disagio nell’avere a che fare con l’altro, con il dover adattare i proprio schemi mentali e la propria routine all’imprevisto. Ci sono ovunque, sono coloro che non vogliono vedere smosso il loro stagno, che non amano dover pensare anche solo di mettere in discussione la modulare ripetitività del proprio vivere.

Io non trovo che sia un male essere considerato straniero. Si tratta di un ruolo, che prima o poi tutti avranno modo di dover interpretare, nelle alterne vicende della vita. Si vorrebbe sempre essere considerati come parte di qualcosa, essere accettati ed apprezzati per il proprio riuscire a mostrare le stesse capacità delle persone che abitano alcuni luoghi, soprattutto quelli che in realtà non ci appartengono mai completamente. Invece, ogni luogo ha le sue bellezze e le sue brutture, dovremmo preoccuparci piuttosto di sapere esprimere e rappresentare le prime anziché le seconde, qualunque sia il posto da cui veniamo.