Il colore del cielo è qualcosa cui ho sempre fatto caso. A costo di sembrare un po’ strana, spesso mi fermo a guardare le altezze che si estendono sopra la mia testa, osservo le nuvole, ammiro le sfumature sempre diverse che paiono stese da un pittore divino.
Di notte cerco le stelle, mi piace scorgere la prima stella che comincia a palpitare non appena cala il buio. Si tratta anche di un modo per mettere in prospettiva i miei problemi, il mio essere così piccina rispetto all’infinito, oltre al fatto che è uno spettacolo che è sempre lì quando si vuole dedicargli un attimo per prendere un respiro e cercare un po’ di bellezza.
Oggi ripensavo ad un centro commerciale che ho visitato durante il mio primo viaggio in Giappone, nel 2013. Cosa c’entra con il cielo, potreste chiedere?
C’è un cielo anche lì, racchiuso tra le pareti. Il centro commerciale è il Venus Fort, si trova a Tokyo, nell’isola di Odaiba – e credo si trovi ancora lì, non lo dico con certezza perché negli anni successivi non ci sono più andata e in Giappone molti posti cambiano alla velocità della luce – e la sua caratteristica peculiare è il voler riprodurre le vie e le architetture di una città europea. Pareva di essere lungo le strade di una città italiana reinventata, per darvi un’idea. E il soffitto riproduceva il cielo, azzurro e screziato di nuvole candide, oppure che digradava piano nei colori del tramonto, con toni caldi.
Mentre si passeggiava questo cielo finto eppure bellissimo accompagnava il tuo sguardo sui negozi e sui locali. Me ne stavo lì a guardarlo mentre sorseggiavo estasiata un frappè preso alla caffetteria, davanti a una fontana adorna di bellissime sculture in stile neoclassico, nel centro di una piazza che non era una vera piazza. Se ci si fermava un attimo a pensare che si era in Giappone, e si mettevano in fila accostandole a quanto si aveva effettivamente davanti le immagini che solitamente uno associa a tale paese – spesso stereotipate – si provava un piccolo shock. Ci si muoveva in una bellissima assurdità che aveva le caratteristiche di certi sogni in cui tutto appare come plausibile e riconoscibile, eppure ha qualcosa che non va, qualche caratteristica che crea una sensazione di turbamento, di quell’appena fuori posto che svela il trucco del sogno, della concretezza che potrebbe sfaldarsi da un momento all’altro. Poi in realtà il Giappone odierno è anche così, un caleidoscopio di contraddizioni, di stili, di suggestioni che paiono non c’entrare nulla l’uno con l’altro e che sono prese da tutto quello che piace o che affascina, ma che la cultura giapponese riesce comunque a rendere inconfondibilmente proprio, nel modo di cui tutto viene filtrato e riproposto.
A quel cielo artificiale ripensavo oggi, abbinandolo all’idea delle emozioni preconfezionate, che sono diventate una tematica su cui mi trovo a riflettere molto negli ultimi tempi. Riflessioni che vanno di pari passo con la pervasività sempre maggiore dei social, che, come tutto quanto riguarda la comunicazione e la diffusione di idee, come tutto quello che racconta qualcosa e crea mondi mi interessa da sempre.
Sono interi mondi alternativi e paralleli al reale, quelli che si creano in questi luoghi finti che fanno appello alle interazioni con persone concrete, mondi che restano nell’idea comune relegati al virtuale nonostante sempre più spesso le loro ripercussioni riverberino sulla realtà e nei suoi vari contesti, con conseguenze sia positive che negative – molto più negative, ahimè, visto che paiono tirar fuori, o far scoprire, talvolta, il peggio delle persone.
Si tratta però sempre e comunque di mondi creati con parole e immagini e legati alla narrazione, con una precisa volontà e idea circa come si vogliono presentare determinati argomenti per suscitare una certa probabile reazione volta a vari scopi di cui molto spesso non ci rendiamo conto, perché quella reazione che il creatore voleva suscitare l’abbiamo già avuta nel momento in cui abbiamo posato gli occhi su un post o un video.
Ma non è così per tutti i tipi di comunicazione, verrebbe da dire? Sto ancora riflettendo su questo punto, perché il social si pone comunque in una zona indefinita tra l’immediatezza della comunicazione reale, che vive di carne e sguardi ed empatia, e la riflessione ponderata e scremata della scrittura, che richiede tempo. Il tutto mescolato inoltre con molte altre modalità di espressione umana, quali la recitazione, la fotografia, la performance, e altri mezzi, artistici e non, che vengono tutti utilizzati per interagire con il proprio pubblico. Questo suo essere un gran mix di tutto rischia spesso di finire per non essere nulla, stringi stringi, perché deve essere necessariamente qualcosa di poco impegnativo, deve essere qualcosa d’impatto, che occupi poco tempo e non necessiti di eccessivo sforzo di comprensione e riflessione. Si hanno solo poche manciate di secondi, pari a quella capacità di concentrazione sempre minore che le persone ormai abituate a tale linguaggio e alla sua brevità riescono a dedicare a qualcosa – che sia da ascoltare, da leggere o da vedere – e in quei pochi secondi devi riuscire ad ottenere tutto quello che potresti esserti proposto, se il tuo scopo va oltre il voler solo condividere qualcosa senza aspettarti chissà che in cambio. Così si finiscono per perdere i pregi propri di ciascuna delle forme di comunicazione cui i social si ispirano e che sfruttano. E il guaio di questi anni è che questo impoverimento del valore della parola e della profondità della narrazione e della comunicazione si è trasmetto anche agli altri mezzi espressivi, perché è solo il modo di comunicare da social che sembra portare al successo e ai risultati immediati.
Stiamo sempre più a bocca aperta sotto un cielo finto che cerca costantemente di emulare quello vero, e rischiamo di dimenticare che alzando lo sguardo ce n’è uno vero, che potremmo finire un giorno per trovare meno interessante di quello finto, perché quello finto ormai ci basta, sazia quel bisogno di emozione che troviamo soddisfatto da un pasto più comodo e già pronto, e che ci dà più soddisfazione perché in tanti ci confermano che è buono.