Monte Koya, luogo sacro che ospita un grande complesso di templi, un immenso e suggestivo cimitero, l’Okunoin, e dove Kobo Daishi, leggendario monaco fondatore del buddhismo Shingon, continua a meditare oltre le porte del tempio sua ultima dimora. Partiti all’alba da Kyoto, arriviamo in mattinata presso questa montagna sacra dopo aver cambiato almeno cinque mezzi di trasporto.
Piove, mentre scendiamo dall’autobus, preso per l’ultimo tratto di viaggio. Il tempio dove alloggeremo per la notte dev’essere nei paraggi. Mentre, sul bordo della strada, cerchiamo di orientarci, un altro autobus passa sfrecciando e becca in pieno una pozzanghera poco lontana da noi, lavandoci per bene. Un “Nooo” desolato risuona tra le valli, e persino il piccolo Jizo di pietra con berretto che se ne sta all’angolo della strada pare un po’ dispiaciuto per noi.
Stanchissimi troviamo poco dopo il tempio: già dopo aver varcato il cancello di legno mi sento in un altro mondo. Un giardino con zone occupate da giardini di pietra, pini di un verde così scuro da sembrare nero, e, oltre tali paesaggi in miniatura, il legno e le volute dell’architettura tradizionale del tempio. La pioggia battente lascia filtrare tutto come attraverso una cortina d’argento.
Alla reception, lasciamo ben volentieri le nostre scarpe inzaccherate per infilare delle pantofole rosso bordeau misura unica, la destra indistinguibile dalla sinistra. Un monaco piuttosto anziano ci accoglie sbrigando le formalità. Ci fa presente che, se lo desideriamo, quella sera possiamo cenare in camera, con un extra. Noi, che abbiamo già speso un occhio della testa per quella notte con colazione, rifiutiamo gentilmente. Altrettanto gentilmente il monaco ci avverte che alle 8 di sera il tempio chiude i cancelli e non si potrà più rientrare, e che lì nei dintorni tutti i luoghi dove mangiare chiudono alle 6. Rispondiamo che non c’è problema.
A quel punto arriva un monaco molto giovane, poco più di un ragazzo. Ha un sorriso a metà tra l’entusiasta e l’imbarazzato, e ci accompagna a scoprire le varie zone del tempio. Ha con sé un quadernino a quadretti dove si è scritto alcune frasi in inglese, ed ogni tanto lo guarda, quando non ricorda una parola, scusandosi con una risata timida. Quando ci accompagna in camera per comunicarci gli orari della colazione e delle terme, ci sediamo attorno al tavolino sul tatami, dopo aver lasciato nello spazio tra i due shoji interno ed esterno le ciabatte, per entrare nella stanza in calzini. Il monaco da un’occhiata veloce a come sto seduta alla giapponese e fa un’espressione stupita, lasciandosi sfuggire uno “Tsugoi” (fantastico). Sorrido ma in realtà sto soffrendo in silenzio: il giorno prima a Kyoto mi sono fatta malissimo alla caviglia destra e solo per mera forza di volontà sto facendo tutto lo stesso. Non sia mai che mi rovino il viaggio o faccio brutta figura. Mio marito invece se ne sta tranquillo, con le sue lunghe gambe incrociate, rinunciando alla posizione corretta dopo circa un secondo. Aiuto il monaco che si sta un po’ confondendo con la pronuncia degli orari dicendogli le ore in giapponese: lo vedo sollevato, ma non lo illudo oltre addentrandomi in frasi più complicate.
Quando restiamo soli, ci guardiamo intorno. Siamo in una stanza con dei fusuma dipinti, a terra tatami che spandono il loro dolce profumo di paglia. Una piccola veranda con delle sedie basse dà sul giardino al piano inferiore. Nell’armadio a muro ci sono due yukata blu e grigi. Ci sarà tempo per godersi la stanza e il tempio. Usciamo per visitare le tante e splendide attrattive dei dintorni. Mentre usciamo il monaco anziano in reception ci ricorda che i locali intorno chiudono alle 6 e che se vogliamo con un extra possiamo cenare al tempio. Rifiutiamo cortesemente.
Alla sera, dopo una lunga giornata, rientriamo al tempio in orario dopo aver cenato presso un conbini dove oltre a noi c’erano un gruppo di motociclisti spagnoli e un giovane monaco dall’aria un po’ colpevole. Il monaco anziano in reception tenta nuovamente con la profferta della cena in camera per un extra. Cortesemente rifiutiamo.
Tornati in camera, indossiamo le yukata e ci dirigiamo verso la zona terme, divisa per uomini e donne.
Oltre una porta scorrevole, c’è un’anticamera dove ci sono dei ripiani per le ciabatte e una parete con spazi occupati da ceste rovesciate e non. Quelle dritte contengono i vestiti e le yukata delle persone che sono già all’interno. Inizialmente un pochino intimidita ma grata che per ora non ci sia nessuno già qui nell’anticamera mi spoglio, ed entro nella zona delle vasche.
Lungo una parete ci sono rubinetti con doccia pieghevole sotto degli specchi, e dei sedili di plastica. Ci sono bagnoschiuma, shampoo e una bacinella per ogni posto. Dentro, impegnate a lavarsi, ci sono una coppia di giapponesi, madre e figlia adolescente, e una ragazza occidentale alta e robusta con capelli ricci e scuri che se ne sta beata dentro la vasca interna, piastrellata di azzurro. Essere tutte nude non mi sembra più così strano, ma semplicemente naturale e rilassante. Attraverso il vetro che separa questa zona dall’esterno noto la vasca che sta fuori, di pietra, dalla quale si vedono il cielo e il bosco. Il cuore mi fa una capriola. Mi siedo sullo sgabello e mi lavo con calma, poi mi dirigo emozionata verso la vasca esterna.
L’aria un po’ frizzante della sera mi fa rabbrividire per un attimo, durante il cambio improvviso di temperatura dall’interno all’esterno. Entro piano nella vasca, l’acqua è caldissima e piacevole. La mia caviglia malandata ringrazia per il sollievo. Non c’è nessuno al momento immerso, le altre tre donne se ne stanno all’interno. Raggiungo un lato della vasca, sentendo con i piedi il fondo pietroso mentre mi sposto, e mi appoggio con la testa sul bordo, guardando il cielo buio, in alto, dove sono comparse disegni di costellazioni dall’aria famigliare. Le ombre degli alberi, più scuri della volta celeste, si ritagliano contro quello sfondo. Mi sento in perfetta beatitudine.
La signora giapponese esce e saggia l’acqua: entra per un po’, poi si stringe le braccia intorno al corpo e mormorando tra sé un un “Samui” (freddo) ritorna nella zona interna. Io resto lì a guardare il cielo e a godermi l’acqua sino a che non sento la faccia paonazza e sudata per il caldo. Esco, recupero il mio asciugamano e raggiungo la zona in cui ci si può asciugare.
Di nuovo in yukata, io e mio marito restiamo per un pezzo al pianterreno a contemplare il giardino interno: in una polla delle carpe nuotano, i loro colori si intuiscono alla luce delle stanze del complesso che si affacciano direttamente sul giardino, e della fila di lanterne in metallo scuro appese lungo la veranda. Arbusti che paiono di velluto, una lanterna di pietra, un torii che si nasconde tra i primi alberi del bosco alle spalle del tempio. Le stanze con gli shoji aperti mostrano interni tradizionali, persone che cenano mentre i monaci gli servono le pietanze in camera, disposte su eleganti vassoi (eccola la famosa cena proposta più volte dal monaco alla reception), il canto continuo dei grilli in sottofondo. Una delle grandi sale di preghiera è alle nostre spalle, aperta nella sua distesa di innumerevoli tatami, scritture dai caratteri complessi adornano la sua parte superiore.
Cammino in giro per il tempio, tra i corridoi e le sale che ospitano pezzi preziosi come dipinti, armi e altri oggetti d’arte, i miei passi che fanno scricchiolare le assi di legno del pavimento, affacciandomi ogni tanto alle finestre che danno sui giardini interni e contemplando il cielo stellato. Un pensiero continua ad occuparmi la mente, immersa in questo sogno “Vorrei che questa notte durasse per sempre”. Tutto quello che avevo immaginato nel corso degli anni sul Giappone tradizionale sembra essersi condensato qui, in queste atmosfere, in questo angolo senza tempo. E mi sembra di non essermi mai sentita più serena.
La mattina successiva, verso le sei, per chi lo desidera è possibile assistere ad una delle cerimonie dei monaci. Mi riprometto di andarci. Tornati nella nostra stanza, troviamo dei morbidissimi futon distesi dove prima c’era il tavolino, che è stato spostato in un altro angolo della stanza. Dopo essere andati al gabinetto, una stanza in comune alla fine del corridoio dove è necessario lasciare all’esterno le ciabatte e indossare quelle presenti all’interno, sprofondiamo nelle coltri dei futon. Tuttavia, la mia notte trascorre all’insegna del dolore alla caviglia, sempre più gonfia e che non mi fa chiudere occhio. Quando, alle sei, sento i passi degli altri ospiti che si affrettano verso la cerimonia, non riesco a fare altro che alzarmi su un gomito, riflettere per qualche istante e poi tornare a cercare di dormire almeno un po’.
Ci alziamo per essere pronti in tempo utile alla colazione: abbiamo giusto finito di prepararci quando un monaco asciutto e serio si annuncia scostando lo shoji che si affaccia sul corridoio: entra, saluta e con pochi gesti rapidi piega i futon e li ripone negli armadi. Poi sposta nuovamente il tavolino nel centro della stanza. Sparisce per qualche altro attimo ed inizia a disporre la colazione, spiegandoci ogni pietanza: vassoi su vassoi con strani cibi, tutte a base di erbe, tofu, alghe, riso. Una candela scalda un recipiente che viene posto, uno per ciascuno, davanti a noi e contiene del tofu immerso in una sorta di latte di soia. Un contenitore di legno con del riso ci viene lasciato vicino al tavolino, così come delle teiere di tè. Mi scappa da ridere al pensiero di mio marito, che mi sta di fronte e sorride rispettoso al monaco: so che è tanto affascinato dall’estetica di quel pasto tradizionale dei monaci quanto interiormente sconsolato essendo un amante della colazione occidentale. Di certo tutte quelle pietanze leggere non lo soddisferanno. Mi trattengo perché il monaco è serissimo e temo che se ridacchiassi mi farebbe volare dalla finestra. Per inciso, a me la colazione piace moltissimo.
Terminata la colazione, a malincuore, raccogliamo le nostre cose e ci prepariamo a tornare a Kyoto. Scendere dal monte, lasciarsi alle spalle i suoi boschi e i suoi templi salutati attraverso i finestrini di un bus e del trenino che ti riporta a valle è come scivolare fuori da un sogno, per tornare nel pur meraviglioso Giappone della quotidianità.