La prima volta che andai in Giappone, nell’ottobre del 2013, durante la nostra permanenza a Tokyo alloggiavamo al settimo piano di un hotel nel quartiere di Meguro. Ricordo il momento in cui, quella primissima sera, entrai nella stanza e scostai la tenda che copriva la finestra, sopra la scrivania. Come se avessi appena rivelato una scena oltre un sipario, davanti a me si stendeva la città, con la sua valle buia punteggiata di luci. Tokyo vista dall’alto, in qualsiasi direzione, sembrava non avere confini, non si distingueva una netta linea dell’orizzonte libera da opere dell’uomo. Una vastità che mi lasciò a bocca aperta, e di cui avrei avuto conferma anche il giorno successivo, alla luce del sole. Ferma davanti a quella finestra, osservavo gli edifici di fronte: un condominio, con la caratteristica struttura nella quale le porte di ingresso degli appartamenti danno direttamente all’esterno, in quanto i corridoi e le scale sono all’aperto; altri palazzi, con lunghe antenne in cima alle quali lampeggiavano ad intermittenza luci di segnalazione rosse, le file di finestre illuminate nel buio; lo spiazzo solitario di un parcheggio, sotto una livida illuminazione bianco bluastra.
Altre mille luci si perdevano ovunque, nella vita notturna della metropoli. Scorci di vita quotidiana, così particolare per me in quel primo impatto in quel paese lontanissimo dal mio quotidiano, apparivano e sparivano come istantanee nelle pozze di luce artificiale. I vestiti appesi accanto alle finestre, sagome che per un momento si potevano confondere per umane, salvo notare la forma dell’attaccapanni che li reggeva; una tenda appena scostata a rivelare l’angolo di un tavolino. Una persona che frettolosamente saliva lungo le scale, sparendo e riapparendo nelle loro svolte. Qualcuno che parcheggiava una bicicletta. I distributori automatici lungo le strade, presenza colorata e rassicurante. Di tanto in tanto il suono lontano di un’ambulanza, o di un’auto della polizia, o dei pompieri, differenti rispetto ai suoni di emergenza che abitualmente riconosciamo. Tutto per me aveva il sapore della novità, della scoperta. Non mi rendevo ancora conto di essere in Giappone, tra la stanchezza del viaggio e lo stordimento per quelle immagini al tempo stesso così famigliari e così assolutamente esotiche che, durante il tragitto dall’aeroporto di Narita sino a Meguro, scorrevano davanti ai miei occhi, oltre i finestrini dei treni e poi dall’alto di una piccola stanza di hotel.
Restai a lungo alla finestra, quella notte, seduta sulla scrivania con il mento appoggiato alle mani, cullata dal suono della cascatella che, come scoprii la mattina successiva, era parte del grazioso giardino con stagno e carpe koi cui si accedeva dalla hall dell’hotel. Osservavo quel nuovo mondo che avevamo tanto sognato, quasi timorosa di staccare per un attimo lo sguardo e perdermi qualcosa, qualsiasi cosa di quell’atmosfera in cui mi sentivo piano piano totalmente a mio agio, rilassata come se avessi finalmente trovato il paesaggio interiore che a lungo avevo cercato.
In qualche modo sentii che era solo l’inizio di una lunghissima storia d’amore.
Durante ogni altro viaggio, non ho mai perso l’abitudine di restare a lungo alla finestra dell’alloggio di turno, quando possibile, e di contemplare le città notturne, la loro preziosa vita segreta nella penombra. La magia non è mai svanita, assume semplicemente sfumature di bellezza sempre diverse.