Rifletto da tempo sulla questione turista contro viaggiatore.
Ricordo che, quando ero ancora alle medie, durante un Ferragosto in cui mi trovavo a girare a Venezia con i miei vidi, appesa lungo uno dei lati di Palazzo Ducale, un’illustrazione di Corto Maltese di spalle, che mirava l’orizzonte. Sopra, c’era scritto “Viaggiatore incantato”. In quel momento pensai che era quello che avrei tanto voluto essere. Quell’espressione riuniva due termini che smuovevano qualcosa nel mio intimo. Il viaggio, che all’epoca era ancora soltanto una generica curiosità e piacere nel muovermi, vedere, scoprire, e l’incanto. Quest’ultimo ancora oggi sostengo sia fondamentale, qualcosa da ricercarsi sempre, per tutta la vita.
Eppure, questa fascinazione per il viaggiatore incantato, che pur rimane uno dei miei punti saldi quando mi trovo a pensare all’uscire dalla mia quotidianità, nel corso degli anni si è trasformata in riflessioni varie sul viaggio e sul turismo. Ho sempre ammirato tantissimo i viaggiatori, coloro che sanno ed osano andare oltre, scoprendo nuovi mondi, e anche, in un ciclo continuo, se stessi. Si è sempre parlato di viaggiatori, quando si pensa alle grandi imprese o agli appassionanti diari di viaggio, e mai di turisti. Chissà perché non si associa mai quest’ultimo termine all’affascinante contesto di quelli che erano i Grand Tour di epoca romantica.
“Aiuto, arrivano i turisti”, viene da pensare a chi vive la propria quotidianità in zone che attirano tanti visitatori, e che magari per la propria particolarità – e per un’organizzazione che non sempre riesce a seguire i ritmi esponenziali dei flussi turistici – soffrono nel venire di colpo frequentate da numeri insostenibili di persone. Ma ora si potrebbe anche declinare l’accezione negativa del termine come un: “Aiuto, forse mi scambiano per un turista, non sia mai”.
Sembra che ormai, negli ultimi anni, la maggior parte della gente abbia il terrore, quando si trova in vacanza, di essere identificata come “turista” e non come “viaggiatore”. Soprattutto se ci si trova in località che ancora oggi nell’immaginario si considerano esotiche, fuori dagli schemi.
Un timore che sino a qualche anno fa prendeva anche me, dato che, come molti, associavo al termine “turista” una serie di caratteristiche quali maleducazione e superficialità. Il turista sembra sempre essere quello che arriva in un posto senza saperne nulla, pretende di continuare a comportarsi esattamente come a casa propria, anzi, peggio, dato che nel luogo della vacanza c’è sempre quell’essere di passaggio che assicura, entro certi limiti, la tranquillità del non doversi ritrovare addosso le conseguenze di brutte figure. Io ero il tipo che durante alcuni viaggi in Giappone, se sentiva qualcuno parlare in italiano si allontanava, un po’ seccata. Per la serie: “Non accomunatemi con i miei compatrioti che sicuramente staranno per fare qualcosa di imbarazzante, io sono diversa, io mi mescolo perfettamente con lo spirito del luogo, quelli sono qui così, tanto per mettere la bandierina su un altro posto”. A pensarci mi viene ancora da ridere, per come ho cambiato opinione in merito. Come se non si venisse sempre, in ogni momento, identificati come stranieri, in un paese che non è la tua madrepatria. Ed è normale che sia così, è una sorta di ruolo che ti assumi in una società che frequenti temporaneamente (quando si tratta di viaggi). Inoltre, come ho detto altrove, gli ultimi viaggi mi hanno confermato che i turisti italiani in Giappone in fondo sono tra i più educati.
Mi sono resa conto che è un’assurdità demonizzare i turisti. Ora, quando viaggio, amo vedere gli sguardi stupiti ed emozionati di persone che chiaramente si trovano in un luogo per la prima volta. Siamo tutti arrivati in un luogo che amiamo una prima volta, e dovremmo ricordare sempre quello che abbiamo provato allora. E tutti ignoriamo molte cose, anche quando pensiamo di saperne un sacco. Non si finisce mai di imparare, e ci sarà sempre chi ne sa molto più di noi.
Non c’è proprio niente di male nell’essere turista, un turista educato, sottolineo. Che sembra essere sempre più rarità semplicemente perché il numero degli stessi turisti è aumentato, quindi è molto più facile, a parer mio, trovare in mezzo a queste percentuali innalzatesi alle stelle anche i maleducati. I viaggi sono diventati, per fortuna, molto più facili sia dal punto di vista logistico che economico, quindi molte più persone riescono a viaggiare. Sottolineo nuovamente: trovo positivo che sia così.
Tuttavia si sta assistendo in questi ultimi tempi ad un fenomeno curioso. Tutti sono improvvisamente diventati viaggiatori, rendendo, di fatto, questo termine ormai svuotato del suo significato più positivo e particolare che un tempo gli si attribuiva.
La mania del voler identificarsi come il più romantico viaggiatore sta forse causando più danni del semplice turismo, in quanto ha finito per essere soltanto l’ennesimo fenomeno di massa: luoghi prima tranquilli che, sbandierati come la scoperta del secolo su come vivere lo spirito autentico del luogo, su come immergersi davvero nella vita locale, sono diventati invivibili, una processione di gente che si fa selfie per far vedere che sta facendo un’esperienza diversa. Di certo il mondo dei social ha acuito la voglia, anzi la necessità, di far vedere a tutti i costi l’esperienza che gli altri – almeno secondo quello che si pensa – non faranno mai. Perché, pensa l’aspirante viaggiatore, è lo sguardo degli altri a definirmi, a dare un senso a quello che sto facendo. A farmi sentire bene. Io mi inquadro in un contesto splendido, in un luogo totalmente diverso da quella quotidianità che con la vacanza mi lascio alle spalle. In un certo qual modo faccio pensare che io sono soprattutto questo, che questo paesaggio mi dona molto di più. Altro che quella routine che pian piano mi soffoca, e in cui non riesco a trovare il bello.
A forza di voler vivere – in realtà soprattutto far vedere agli altri – il proprio viaggio nello stile “faccio come la gente del luogo”, si finisce per assurdo in quelle che si rivelano sul serio trappole per turisti, ammassati insieme a decine e decine di altri “viaggiatori”.
Gente che urla allo scandalo se viene a sapere che in viaggio sei andato in un fast food o in una caffetteria di qualche nota catena, quando in realtà questi luoghi sono pieni di gente del posto che ti offre in tal modo davvero uno spaccato di vita quotidiana dell’altrove di cui vorresti tanto fare parte. I luoghi non sono cristallizzati nell’idea romantica e stereotipata ad uso e consumo dell’autoscatto o della foto che fa strage di like sui social. Sono vivi, mostrano bellezza e storicità da preservare ma proseguono anche nel loro cammino, ci sono persone vere che li abitano e che hanno abitudini e necessità come in qualsiasi altra parte del mondo.
Il problema è che non ci si perde più, come poteva capitare una volta al “turista fai da te” che aveva sempre quella dose di ingenuità e smarrimento data dal non conoscere già ogni minimo particolare prima del viaggio. E perdersi è bellissimo, in un mondo ormai quasi del tutto mappato e consultabile da tutti, in ogni momento.
È incredibilmente assurdo come, a furia di voler essere alternativi, di volersi distinguere dalla “massa”, di voler sembrare più intelligenti, più autentici, tanti finiscano per essere un’ennesima sequela di persone tutte uguali. Non voglio essere fraintesa: ci sono tante persone che viaggiano in maniera consapevole, che fanno bellissime esperienze, anche inusuali rispetto alle mete tradizionali, e le vivono davvero con attenzione e criterio, per se stesse, non per sfoggiarle come status symbol. Mi si potrebbe obiettare che sui social, insieme a migliaia di altri che parlano dello stesso argomento, ci sono anch’io, a raccontare dei miei viaggi e delle mie esperienze. Ma c’è un motivo per il quale non compaio mai nelle foto che condivido, e per il quale uso uno pseudonimo, oltre alla mia estrema riservatezza. Mi piace pensare che il viaggio possa diventare anche un po’ delle persone che mi leggono o mi seguono. Non sono tanto io che vado nel tal luogo a contare, ma il luogo in sé, e quello che potrebbe dare ad ognuno. Quello che un luogo, una cultura, è, oltre la facciata. Da vivere sia con la rilassatezza del turista che con l’incanto del viaggiatore.