La prima preghiera dell’anno, di quest’anno che a breve vedrà simbolicamente il proprio giro di boa, con giugno che è sempre occasione di bilanci del medio periodo. Ci ripenso oggi, ricordando come la prima preghiera dell’anno in questo 2024 l’ho rivolta, a chiunque fosse in ascolto, presso il santuario Tsurugaoka Hachimangu, a Kamakura.
Hatsumode, la tradizionale prima visita dell’anno al tempio, che vede nei giorni in cui si celebra il Capodanno, che è in Giappone tra le feste più importanti, fiumi di persone recarsi presso il tempio o santuario più significativo per loro. In quei giorni che precedevano il primo dell’anno, e in cui mi trovavo in Giappone dopo quattro anni di “assenza”, ho sentito chiaramente che il luogo più adatto per tale visita sarebbe stato proprio il santuario più importante di Kamakura, Tsurugaoka Hachimangu. L’avevo visitato durante il primo viaggio, nell’ottobre del 2013, e da allora non avevo più avuto occasione di tornarci. Ma perché proprio lì?
Oltre ad essere luogo importante per quella storia del Giappone che appassiona sia me che mio marito, credo sia il luogo in cui ho avvertito per la prima volta il senso del sacro di questo paese. Un istante, un’emozione che mi prese sin nelle viscere, qualcosa che mi lasciò per un attimo senza respiro con una commozione profonda, incredula e incantata. Travolgente e delicata al tempo stesso, che non si lascia afferrare del tutto, sfiorandoti e lasciandoti una dolce malinconia. E che ti porta in dono quella nostalgia che non ti abbandonerà mai più, e sarà tua compagna costante. A dire il vero, avevo quasi timore di tornare proprio lì, temevo che forse la magia delle prime volte si fosse dissipata e mi scoprissi a guardare con occhi meno propensi alla meraviglia.
Eppure, quando mi sono trovata parte del fiume immenso di gente in coda per poter raggiungere il santuario, mi sono sentita cogliere da tante altre emozioni diverse. Lì, sotto un cielo limpido e un sole spesso impietoso pur essendo inverno, conscia che ci sarebbero volute forse ore per giungere alla scalinata che si vedeva da lontano. Il largo viale che conduce al santuario era punteggiato di colori, di teste rivolte verso la meta. Pareva di stare abbracciandosi tutti, non c’era alcun segno di impazienza. Come si aprissero piccole dighe, delle corde venivano alzate per far passare un certo numero di persone, regolando il flusso. Onde su onde, una marea fatta di esseri umani con i loro pensieri ad accompagnare il cammino lento verso il mistero di un nuovo ciclo che inizia.
Non eravamo gli unici stranieri tra la maggioranza di locali. Questa usanza ormai è abbastanza nota anche tra i turisti, mi ero stupita anzi di non vederne un numero più alto. Forse molti avevano già compiuto la prima visita dell’anno durante la notte, nel corso delle celebrazioni che hanno accompagnato i primi istanti del 2024.
Mentre avanzavamo pian piano, scivolando verso la gradinata, mi domandavo anche se fosse giusto imporre la mia presenza in quel contesto, con quale diritto io, straniera, fossi lì, in un momento simbolo di un legame intimo tra una cultura e il suo rapporto con la sacralità. Porto nelle mie radici una religione molto diversa, che con la sua impronta influenzerà sempre il mio animo, nonostante le mille consapevolezze e i dubbi acquisiti negli anni del mio rapporto complicato di costante ricerca, e nonostante io possa non rendermene conto, o non accettarlo mai del tutto. Durante i primi viaggi in Giappone sentivo quasi non fosse mio diritto pregare presso i santuari e i templi, mi sentivo quasi un impostore, temevo anzi di poter suscitare riprovazione in chi, vedendomi, potesse pensare stessi solo facendo l’ennesima scenetta da turista.
Poi qualcosa è cambiato. Ho sempre amato templi e santuari – tanto che mio marito mi prende spesso in giro per la mia propensione ad esserne attirata. E c’è stato uno slancio in cui la preghiera è sorta da sola. Mentre stavo per arrivare alla scalinata che conduce al santuario, mi ero resa conto chiaramente di cosa mi avesse spinta sino a Kamakura, in quel giorno affollatissimo. La prima preghiera dell’anno doveva essere soprattutto un ringraziamento per essere tornati, per essere lì, di nuovo, in Giappone. Nessun viaggio l’ho mai dato per scontato, e tale sensazione di gratitudine è sempre presente.
A dieci anni dal primo viaggio, ero lì per la prima preghiera dell’anno per rendere grazie, e anche per augurarmi quella forza necessaria ad affrontare tutto quello che la vita mi avrebbe posto dinanzi. Hachiman è un kami cui si rivolgono i guerrieri. Io non mi sono mai sentita particolarmente definita dal concetto di guerriero, e mi auguro perciò di trovare il tipo di forza che il mio modo di essere può esprimere.
Saliti i gradini e giunta dinanzi agli altari, mi sono concentrata, con un po’ della mia solita ansia, per osservare la gestualità dei giapponesi e ripetere nel modo corretto la forma, così importante. Giunto il momento della preghiera, rapida per poter permettere a tutti di rivolgere la propria, si è creata come una bolla di quiete, che ha reso anche quei pochi istanti densi di tempo, intrisi di quella presenza costante che intesse ogni aspetto del paese degli infiniti dei. Ero lì, ero parte di un tutto, di quel tutto che in ogni luogo dove si ricorda il sacro mi spinge a fermarmi e a lasciare che a parlare sia il cuore, con i suoi silenzi e i suoi misteri.