Musica e hotel ad Itami

“I hear the drums echoing tonight…” la musica si spande nella hall dell’hotel in cui stiamo aspettando che arrivi l’orario esatto del check-in, per poter salire nella nostra camera. Africa, dei Toto. Una canzone che mi porta immediatamente negli anni ’80, e crea nella mente dei paesaggi che la musica di quegli anni commenta come nient’altro saprebbe fare.

Siamo partiti da Kyoto per raggiungere Itami, l’altro aeroporto di Osaka che si occupa per lo più di voli interni. Il giorno prima, dopo esserci resi conto che la stanchezza che sempre si accompagna alla fine del viaggio avrebbe reso un po’ troppo arduo arrivarci in treno, abbiamo deciso di prendere un bus autostradale che porta direttamente davanti all’aeroporto. Molto comodo, e il viaggio con questo mezzo mi permette di osservare un’altra prospettiva ancora, quella delle strade che si intrecciano fuori dalle grandi città. Mi stupisco del finestrino del bus un po’ sporco rispetto agli standard cui mi sono abituata in questo paese. In un angolo del vetro una deiezione di uccello attira inevitabilmente di tanto in tanto il mio sguardo, e l’alone che rivela di qualcuno che deve aver appoggiato la testa sul vetro prima di me mi trattiene dall’avvicinarmi troppo. Per tutto il resto, nulla da dire, in breve tempo arriviamo all’aeroporto senza aver dovuto affrontare diversi cambi di treni.

L’hotel si trova a due minuti a piedi dall’aeroporto stesso. Il nostro volo partirà la mattina successiva, arriverà sino a Narita da dove poi prenderemo l’aereo che ci porterà a Vienna, ultimo scalo prima dell’Italia. Ci avviamo lungo la strada dalla quale si vedono le piste, verso un cavalcavia sotto al quale si affollano alberghi e qualche negozio. Per la prima volta abbiamo prenotato una stanza in un love hotel. La posizione era comodissima e il prezzo veramente conveniente, per il tipo di camera offerto. Tra me e me spero di non essere incappata in uno di quei love hotel super pacchiani e strani con le camere a tema, che vengono sempre mostrati quando si parla di stranezze dal Giappone, ma dalle foto viste sul sito non dava proprio quell’impressione.

Entriamo accolti da una porta automatica, e vediamo una grande hall dallo stile molto elegante in cui dominano i colori crema e giallo pallido. Il sapore è di qualche decennio fa, pur essendo tutto chiaramente nuovo. Al banco delle reception non c’è nessuno, e solo dopo che suoniamo il campanello compare una signora di mezza età che sembra essere quasi stata interrotta durante le faccende domestiche. Ci dice che per poter accedere alla camera ci vorrà ancora un po’, invitandoci ad aspettare. Dopo qualche minuto in cui attendiamo in piedi lì sulle poltroncine davanti alla reception, dall’ascensore escono due ragazze giapponesi sui vent’anni, ridendo e tenendo in mano una bottiglia. Vanno alla reception e saldano il conto. A quel punto la signora ci invita ad andarci ad accomodare in una sala vicina alla reception, dove ci sono dei divani molto comodi con degli alti paraventi tutti intorno che nascondono alla vista sia chi si trova seduto sui divani, sia chi stia eventualmente passando davanti alla reception. Sono dei veri e propri mini salotti con anche un televisore. A quel punto mi sento un po’ in imbarazzo, perché mi rendo conto che, certo, la signora ha voluto farci stare più comodi durante l’attesa, ma anche impedirci con tatto di restare lì a veder passare gli altri ospiti, dato che questo genere di hotel ospita magari coppie che vogliono una certa discrezione.

Mentre attendiamo, inizia appunto a risuonare la musica dei Toto. A quel punto sorrido, dicendo a mio marito che con questa musica l’impressione di trovarsi improvvisamente negli anni ’80 è completa. In quel momento mi rendo conto che una parte del mio immaginario sul Giappone è legato ad impressioni di decenni passati, che magari non ho potuto vivere con piena consapevolezza, dato che io sono nata proprio all’inizio degli anni ’80, ma che ho respirato crescendo. Con la musica che faceva da sottofondo alle mie prime parole. Un paesaggio di grande città notturna, dove tutto può accadere, dove lo sfolgorare di neon sfuma l’umido della pioggia di toni malinconici. Blade Runner, sempre prodotto dell’immaginario di quegli anni. Qui in Giappone ho trovato concretizzate le mie fantasie su questa vagheggiata atmosfera da metropoli di un futuro in realtà non così lontano. Quel mare di luci e grattacieli che spuntano da un sogno malinconico, e che ho visto dispiegarsi dall’osservatorio della Tokyo Tower, dove non riuscivo a credere ai miei occhi, e nella mia mente echeggiava la musica di Vangelis nelle scene che aprono uno dei più bei film della storia del cinema.

Quando la canzone dei Toto sta per finire, è tempo di salire in camera. Ad oggi, la stanza più incredibile in cui abbia mai alloggiato. La raggiungiamo attraverso corridoi ovattati di moquette, dove la musica prosegue, a volume insolitamente alto. Le porte delle camere che si susseguono lungo la parete sono tutte spalancate, con una luce verde sopra lo stipite che le indica come libere. Una volta varcata la nostra soglia, troviamo un’anticamera dove lasciare le scarpe. Per terra, parquet ovunque. La stanza è più grande di tutta casa mia. Sulla sinistra si apre un antibagno con uno specchio enorme sopra i due lavandini, e un armamentario da far invidia ad un salone di parrucchiere, oltre a miriadi di prodotti per l’igiene.

Dall’antibagno una porta conduce alla stanza da bagno, dove c’è la zona piastrellata con la doccia mobile, uno sgabello di plastica e una tinozza per potersi lavare prima di entrare nella grande vasca idromassaggio che chiude la zona. Una piccola nicchia sopra la vasca, chiusa da un vetro, contiene un modellino di veliero con dei salvagenti bianchi e rossi a decorare il fondo azzurro che imita il mare. Unica cosa un po’ di dubbio gusto. Un’altra porta dall’altra parte dell’antibagno ospita invece il solo water.

L’ambiente principale della stanza è dominato da un letto grandissimo, una visione paradisiaca dopo due settimane di letti piccoli e stretti. Una zona accanto al letto presenta un divano, una poltrona in pelle nera di quelle che fanno i massaggi alla schiena, una slot machine di Hokuto no Ken che sfolgora di colori (e avremo un bel da fare per capire quali pulsanti dei comandi luci della stanza spengano le luci fucsia e blu di questa benedetta slot). La parete di fronte al letto, oltre ad un grande tavolino da trucco e toletta, un armadio e il frigobar con consumazioni gratuite, presenta un grande televisore, la Nintendo Wii, un dispositivo per il karaoke e uno schermo da poter far scendere (grazie al quale ci accorgiamo che c’è un proiettore, appeso sul soffitto sopra al letto). Niente indica che si tratti dello stesso genere di quegli strani hotel ad ore con ambienti stravaganti. Se non fosse per un angolo in cui se ne stanno, ordinatamente confezionati in dei sacchetti di plastica, una mascherina nera, una lunga piuma e uno strumento che ancora oggi mi domando se fosse davvero un microfono come ho preferito pensare.

Quando, più tardi, usciamo dall’hotel per andare a mangiare all’aeroporto, la reception è deserta. Di nuovo i Toto stanno cantando Africa, che da allora diventerà per me una canzone legata al ricordo di uno dei miei viaggi in Giappone. La porta automatica che si apre sul lato opposto rispetto a quella dalla quale siamo entrati si apre e ci ringrazia con una voce femminile un po’ metallica. Siamo nel futuro, penso. Anche se si tratta per alcuni versi di un futuro ancora intriso a tratti di atmosfere del passato.