C’è un leggerissimo profumo di mela. Si espande dal sacchetto che dondola piano al mio fianco, seguendo i miei movimenti mentre raggiungiamo una panca di pietra lì, sul molo. Forse è solo un’impressione, è la confezione stessa al suo interno, con quei colori che richiamano il frutto, a suggerirne l’odore.
Per la prima volta da quando viaggiamo in Giappone, abbiamo acquistato delle bellissime confezioni di dolci per noi, e non per portarle a casa come souvenir per amici o parenti. Sono dolci dalla durata breve, con ingredienti delicati, e il nostro viaggio è ancora agli inizi. Neanche volendo potremmo portarli via con noi sino al ritorno. Questo mi dico, giustificando la voglia di farci il regalo di un momento, che ha colto entrambi mentre visitavamo l’A-Factory, un grande mercato dedicato alla mela e ai suoi derivati, che domina il molo accanto alla stazione di Aomori, zona famosa per le mele.
Ci sediamo su questa panca di pietra. Intorno, erba un po’ secca. Davanti e sopra di noi, gli impressionanti slanci del ponte che taglia a metà il paesaggio di Aomori. Alla nostra destra la città, a sinistra il mare e il suo bordo. Una nave sta facendo delle operazioni di manutenzione, oltre il parapetto della nostra parte di molo, ferma in una piccola insenatura. Un signore anziano in completo nero e cappello osserva il cantiere, con le mani incrociate dietro la schiena e una profonda concentrazione. Scena immancabile, in ogni parte del mondo.
Poggiamo la bella scatola di cartone giallo pallido, quadrata, sulle nostre ginocchia, seguita da un’altra confezione più piccola, con colori vivaci. Sono due tipi di dolce. Dei panetti di pan di spagna, rotondi e morbidissimi, con un ripieno di crema pasticcera e pezzetti di mela, e delle sfoglie di forma rettangolare, molto morbide anch’esse, con dentro una crema di mela, simili a degli strudel alla vista. Con solennità prendo uno dei dolci rotondi, che ho scelto io, e lo scarto. Persino la confezione singola in cui è avvolto è morbida al tatto, e si lascia aprire con la consueta facilità di molti snack e dolcini giapponesi. Mio marito invece apre una delle sfoglie. Il profumo di dolce e di frutta ci solletica le narici, la lingua già sembra pizzicare nell’aspettativa del sapore.
I dolci sono buonissimi. Ne mangio due o tre, sentendomi un pochino in colpa per aver preso quella confezione tutta per me, per noi, mentre sarebbe pensata come dono. L’acqua continua a sciabordare sui moli, di tanto in tanto arriva un lieve odore di acqua salata, carburanti, alghe e bruciaticcio che mi è famigliare. L’odore delle città portuali. Il molo prosegue in una lunga e bella passeggiata che porta, volendo, sino al centro città, e che ti fa incontrare anche la statua dedicata al filo rosso: due bambini con le caviglie legate da quel filo che unisce coloro che sono destinati l’un l’altra. Dall’altra parte del mare, oltre lo stretto Tsugaru, che divide l’Honshu dall’Hokkaido, c’è la stessa statua, a guardare verso la sua gemella.
Aomori è proprio questo, anche ora che la rievoco nel ricordo: una tortina rotonda che ti carezza la bocca e la mente con il suo sapore dolce, lasciandoti poi quel leggero acidulo di mela. Ti riporta a pensare con nostalgia agli anni dell’infanzia. Nella città stessa sembra quasi di camminare nel tempo, di ritrovarsi in un luogo in cui quegli anni non sono mai trascorsi, in cui qualcosa si è fermato. E di questo aver dolcemente e inevitabilmente rallentato te ne rendi conto, mentre passeggi sotto i portici del viale che parte dalla stazione, osservando edifici dallo stile primi anni Novanta, incrociando poi, nella via perpendicolare che porta sino al mare, file di negozi chiusi da tempo, le vetrine vuote e polverose, un’insegna con un clown che forse un tempo appariva elegante e giocoso, ed ora diffonde ancora più malinconia. Incroci quei vecchi negozi di caramelle e giocattoli per bambini, tenuti da persone piuttosto anziane, che ti fanno ricordare il tuo esitare nello scegliere caramelle e contare le lire, in negozi simili dall’altra parte del mondo, quando facevi le elementari.
Aomori è nostalgica. Ha visto trascorrere forse i suoi anni più produttivi, prima che il tunnel ferroviario Seikan rendesse sempre meno necessari i traghetti per l’Hokkaido, e con loro sempre meno la gente spinta a fermarsi nella città. Ad agosto, il Nebuta Matsuri, con i suoi spettacolari carri di lanterne che dipingono scenari epici e mitologici, attira ancora una moltitudine di gente. Ma mentre la visitiamo è giugno, i carri possiamo ammirarli, senza fiato per lo stupore, all’interno del bellissimo museo loro dedicato. La città è tranquillissima, quasi sonnolenta, per lo meno nella zona in cui ci troviamo. I giovani li vediamo riunirsi in una minuscola piazzetta contornata da locali alla moda proprio sotto il nostro hotel, nei pressi della stazione. Una sera, dalla camera dell’hotel, sentiamo urlare da un gruppo di ragazzi un triplice “Banzai!”, alla fine del convinto discorso di uno di loro. Ridacchio con mio marito, dicendogli che è la prima volta che sento urlare Banzai! in Giappone.
Sembrava una festa per un commiato, o forse per la realizzazione di un traguardo. Ma un traguardo in fondo è anche accomiatarsi da quanto si era precedentemente, dalla persona che è giunta sin lì e ora inizia una nuova fase della vita, quella dopo l’aver raggiunto la meta prefissata.