Punti di vista – Isabella e Fosco

Si tratta di una questione di punti di vista.

Di fronte alla narrazione della realtà, si dovrebbe sempre fermarsi a pensare come quanto viene esposto ai nostri occhi passi attraverso quello che è il punto di vista della persona in questione, e che quindi vada sempre preso in considerazione il contesto storico, culturale e sociale cui quella persona appartiene.

Per quanto riguarda il Giappone, la molteplicità di descrizioni, che pur si raggruppano tendenzialmente nei due poli opposti di sperticata lode e aspra critica – ugualmente non attinenti il vero, a mio parere – mi sta portando soprattutto negli ultimi tempi a pensare a quanto sia importante uno studio ed un’esperienza continua, per crearsi un proprio ulteriore punto di vista, certo, ma che sia volto soprattutto al desiderio di avvicinarsi quanto più possibile alla realtà delle cose, per evitare che a tali cose vengano attribuite e sovrapposte caratteristiche non loro, che possano essere strumentalizzate e finiscano per renderle altro.

Qualche mese fa stavo leggendo “Itinerari insoliti del Giappone – Un resoconto dei viaggi nell’interno inclusa la visita agli aborigeni di Yezo e al tempio di Nikko”, di Isabella Lucy Bird. Si tratta di una raccolta di lettere di viaggio di questa straordinaria figura di esploratrice, naturalista e scrittrice nata nel 1831 in Inghilterra e morta nel 1904. Nel leggere la sua biografia si resta davvero a bocca aperta, se volete averne una panoramica più ampia potete dare un’occhiata qui . Nel 1878 Isabella fece un viaggio in Giappone, nelle zone meno battute dai viaggiatori dell’epoca. Giunse sino in Hokkaido, dove trascorse del tempo con gli Ainu, cercando di redigere una sorta di vocabolario della loro lingua e documentandone usi e costumi. Scopro oggi, nel cercare altri particolari sulla sua vita, che in Giappone le è stato dedicato anche un manga dove si narra del suo viaggio in questa terra, manga che dal 2018 viene proposto anche in doppia lingua, giapponese e inglese (Isabella Bird in Wonderland, di Sassa Taiga). Nel seguire le sue vicende durante questa sua esperienza giapponese, del suo viaggio parecchio difficoltoso in molti punti, visto che percorreva strade decisamente non pensate per dei comodi tragitti, e sorprendendomi – ma non troppo – per il suo apparentemente contraddittorio misto di senso di superiorità occidentale e cristiana e sincera ammirazione per le persone autoctone che incontrava e i paragoni a loro favore che faceva con la società da cui ella proveniva, mi sono soffermata in particolare su due luoghi che ella descrive, Nikko e Ise.

Mentre leggevo di come Isabella parlava di questi due posti iconici del Giappone, si è sovrapposta immediatamente nel ricordo un’altra mia lettura, un altro personaggio, e come questi ha parlato invece degli stessi luoghi. Il personaggio è Fosco Maraini (Firenze, 1912 – 2004), che credo soprattutto tra gli amanti del Giappone non abbia bisogno di presentazioni. L’opera che mi è tornata in mente in cui racconta delle sue impressioni su questi due luoghi è “Ore Giapponesi”, il libro che, per quanto mi riguarda, ha scatenato in me l’amore per questo paese, oltre che ammirazione per un modo di porsi nei confronti di tutto quanto è cultura, curiosità, apertura mentale, gioia per la scoperta.

Su Nikko e Ise Isabella e Fosco hanno punti di vista praticamente opposti.

Si tratta di persone nate in nazioni diverse, anche se parte pur sempre di una certa cultura occidentale (e la madre di Fosco tra l’altro era in parte inglese), in tempi diversi anche se non lontanissimi temporalmente parlando, sebbene nel giro di pochi decenni rispetto ai tempi di Isabella il mondo sarebbe cambiato, e il Novecento con le sue tragedie avrebbe fatto irruzione. Una donna e un uomo, nutriti di paesaggi e di ideali diversi, con modalità necessariamente differenti di rapportarsi agli altri e di leggersi in quanto individui in un contesto. Accomunati da un indomito spirito di avventura, dall’indipendenza di pensiero, dalla volontà di scoperta e di ricerca che, quando cerco di trovare quanto potessero avere in comune, quasi pare appianare del tutto le altre differenze tra loro.

Prendo i due libri, rileggo le pagine che i due viaggiatori hanno dedicato alla loro esperienza in questi luoghi.

In entrambi è vivissima l’ammirazione per la natura. Isabella era anche botanica, talvolta i suoi scritti risultano un po’ lenti per via delle particolareggiate descrizioni in cui si sofferma circa la flora del luogo, oltre al suo uso di riportare caratteristiche del paesaggio agreste, fluviale, di montagne, passi, sentieri. Registra tutto con precisione perché quelle lettere idealmente indirizzate alla sorella sono anche ricerca, necessità di testimoniare per tracciare una mappa di luoghi che appaiono ostici e non percorsi dagli stranieri, per dare un quadro delle parti ancora sconosciute di un paese. Fosco era alpinista, la natura ha sempre un ruolo complementare e fondamentale nella sua visione del mondo, anch’egli doveva seguire o aprire sentieri e percorsi attraverso luoghi impervi.

Rileggo i punti di vista, trovo nonostante tutto quanto c’è di comune, e mi domando invece cosa abbia pensato io, di questi luoghi. Li ho visti quando avevo già letto le parole di Fosco, forse mi hanno influenzata? La mia visione era già predisposta a leggerli e sentirli in un certo modo, perché ero guidata da certi concetti che di mio probabilmente già condividevo?

Mi rispondo con altre domande, altre questioni complesse che si aprono l’una dopo l’altra, ciascuna delle quali meriterebbe una trattazione a parte. Si affollano nella testa anni di concetti e problematiche legate all’arte, alla letteratura, alla natura, alla storia, alla scrittura. Letterature comparate, quanto mi piacevano quelle lezioni all’università, e quanto mi piace ancora oggi quello che in fondo ritengo sia un modo inevitabile di studiare letteratura, per comprendere quell’anelito comune che si trova all’interno dell’essere umano. Quanto di migliore davvero abbiamo, aldilà delle differenze che possono e devono essere ricchezza.

E dopo tutte queste riflessioni, non posso far altro che proporvi i passi in questione, in modo che anche voi possiate notare i diversi punti di vista, e magari riflettere su quello che è il vostro. Il mio, infine, dopo aver analizzato per bene quanto ho effettivamente provato durante i miei viaggi (mi verrebbe quasi da chiamarli gite, perché io non sono né Isabella né Fosco)? Condivido tutto quello che Fosco dice su Ise, e credo che forse Isabella non l’avesse compresa, né ci tenesse particolarmente a comprenderla, aldilà del semplice volerla descrivere in quanto luogo importante per lo Shinto. Forse per la sua salda convinzione religiosa, forse perché i suoi interessi erano incentrati su altri aspetti. In quanto a Nikko, non la trovo poi così intollerabilmente pacchiana, per quanto quel qualcosa di leggermente stridente rispetto a come io immagino un certo Giappone in fondo l’abbia percepita.

Ma ora lascio spazio alle parole.

NIKKO

Isabella Lucy Bird – Itinerari insoliti del Giappone, traduzione di Giorgio E. Borgonovi, Edizioni La Comune, paragrafi tratti da pp. 59 – 64

(…) Lo stile dei palazzi, la composizione, ogni forma di arte visibile e il pensiero che ha ispirato il tutto sono esclusivamente giapponesi; la vista del cancello dei Ni-o è la rivelazione di una bellezza mai sognata prima, sia nella forma che nel colore. All’interno del cortile finemente lastricato, che è circondato da un muro di legno di colore rosso brillante, ci sono tre magnifici edifici che contengono il tesoro del tempio, una sontuosa stalla per i tre cavalli sacri albini (mantenuti ad uso della divinità), una magnifica cisterna in granito per l’acqua sacra, alimentata dalla cascata Somendaki e un palazzo riccamente decorato, in cui viene conservata una raccolta completa delle scritture Buddiste. Dal palazzo una scalinata porta ad un cortile più piccolo, che contiene una torre campanaria di meravigliosa fattura e decorazione, una torre per i tamburi altrettanto bella, un santuario, i candelabri, la campana e la lanterna menzionati prima e alcune lanterne in bronzo molto grandi. Da questo cortile un’altra scalinata sale al cancello di Yomei, la contemplazione del suo splendore, giorno dopo giorno, mi ha riempita di crescente stupore. Sui capitelli delle colonne bianche che lo sostengono sono scolpite le teste, dalla gola rossa, del mitico Kirin. Sopra l’architrave c’è una balconata sporgente che corre lungo tutto il cancello, con un corrimano sostenuto da teste di dragoni. Nel centro due dragoni combattono eternamente. Al di sotto, in altorilievo, sono scolpiti gruppi di bambini che giocano, poi una rete di raggi vividamente dipinti e, in file, sette gruppi di saggi cinesi. (…)

(…) Passare da un cortile all’altro significa passare da splendore a splendore, ci si sente quasi grati nel sapere che questo è l’ultimo, e che la tensione cui è sottoposta la nostra capacità di ammirazione sta per finire. (…)

(…) I templi sono l’esempio più meraviglioso di quest’arte in Giappone. Nella loro cornice di criptomerie, che raggiungono la circonferenza di 20 piedi a soli 3 piedi dal suolo, si viene presi prigionieri dalla loro bellezza, sfidando tutte le regole dell’arte occidentale si è obbligati a riconoscere la bellezza di forme e di colori che prima non si conoscevano e che il legno laccato è capace, in sé stesso, di dare vita ad elevati concetti artistici. L’oro viene usato a profusione, insieme al nero, al rosso spento, al bianco, con abbondanza e lusso quasi unici. Le sole decorazioni in bronzo meriterebbero uno studio e i lavori di intaglio richiederebbero settimane di lavoro attento per impadronirsi a fondo del disegno e dei dettagli (…)

Fosco Maraini “Ore Giapponesi”, Corbaccio, 2000 (nuova edizione), paragrafi tratti da pp. 433 – 436

(…) In quest’opera gigantesca d’amor patrio e di pietà filiale si cadde irresistibilmente nell’equivoco di tutte le tirannie: il lusso, la magnificenza, la pompa vennero confusi con la bellezza, e lo sbigottimento con le commozioni più nobili e profonde. (…)

(…) Dove neppure la natura, con l’incombere solenne dei suoi giganti verdi, col rombo delle cascate lontane, con la presenza invisibile delle sue montagne, riesce a soffocare lo sbigottimento, vorrei dire addirittura la repulsione, è dinanzi al portale Yomei, detto anche Higurashi-mon, “portale del vespro”, a sottolineare che l’ammaliato viandante vorrebbe qui attardarsi sino al calar del sole “per abbeverarsi d’infinite bellezze”. É vero che si è già preparati da parecchie strutture di dubbio gusto (per esempio la piccola Cisterna Coperta) e ci si guarda intorno con timorosa attenzione, temendo il peggio; ma qui si resta improvvisamente del tutto sopraffatti. É uno scherzo? É un incubo? Si tratta d’una gigantesca torta nuziale, d’un capolavoro di pasticceria per il matrimonio di qualche principe stravagante che ha un culto perverso del rococò, e vuole spaventare e divertire i suoi ospiti? Poi ti avvicini, tocchi: niente affatto, è architettura vera, facevano sul serio! Era gente, anzi, che ambiva al vistavision, al technicolor, al bello cosmotronico. L’occhio, poverino, inizia il suo faticoso viaggio su per quelle colonne dipinte di bianco, poi laccate e dorate, sale verso tetti e fastigi pesanti, complicati, perdendosi lungo la strada tra giraffe, draghi, nuvole, leoni, bimbi cinesi, peonie, sovrani e prenci, saggi ed immortali, uccelli, serpacci, fiori, tigri, pini, bambù, nespoli, pavoni, fagiani, tutte cose scolpite con diabolica e gelida abilità, colorite con furore visionario, lucidate, per l’eterno stupore dei rozzi, degli arricchiti in un giorno. Ad un certo momento il misero occhio si ribella, grida basta; ci si sente vinti, subissati, sopraffatti; bisogna fuggire. Un sasso, datemi un sasso della foresta, un centimetro quadrato di torrente, di prato, di verità, dopo quest’orgia d’arte falsa e pretenziosa! (…)

(…) In questo libro ho parlato molto, e sempre col più caldo entusiasmo, di quel polo del gusto e dell’arte giapponese che hanno per ideali: semplicità, purezza, natura (…) Eppure bisogna tenere ben chiaro in mente che quello è solo un Giappone; che ne esiste poi un altro attratto dall’opposta forza polare; un Giappone che si compiace del ricco, dello sfarzo, del volgare, che ama i colori soltanto se s’avvalangano sulle cose, che ama l’argento e l’oro, che amerebbe qualche altra materia con ancor più robusto entusiasmo se ve ne fosse una che luccicasse di più, costasse di più, facesse più beatamente restare i gonzi a bocca aperta. Nikko è la personificazione di questo secondo polo. Lo si può detestare; bisogna comunque riconoscerlo.(…)

ISE

Isabella Lucy Bird – Itinerari insoliti del Giappone, traduzione di Giorgio E. Borgonovi, Edizioni La Comune, paragrafi tratti da pp. 426 – 429

(…) Un pellegrinaggio giapponese non è né solenne né santo, i luoghi dove si trovano le grandi mete dei pellegrinaggi Scintoisti hanno un numero anche maggiore del solito di attrazioni per il vizio.

É sufficiente descrivere il tempio Geku, che è l’esatta copia del tempio Naiku. Entrambi sono situati in mezzo ad antiche criptomerie; ogni albero maestoso, nell’immaginazione Scintoista, è degno di essere una divinità, ma ad impressionare maggiormente uno straniero sono i boschetti di canfora, i più belli del Giappone, che coprono con la loro oscura magnificenza il vasto terreno sacro e, con la loro maestosità unica, fanno perdonare la nudità e lo squallore dei templi a cui fanno ombra. (…)

(…) Seguendo una strada maestosa, passando attraverso un maestoso boschetto, il visitatore raggiunge il famoso tempio di Geku e, nonostante la descrizione realistica di Mr. Satow, viene colpito da una cocente delusione (…)

(…) L’impressione prodotta da tutto questo è simile a quella che si è formata nelle considerazioni dei più profondi conoscitori dello Scintoismo: non c’è nulla e tutto quanto, anche gli imponenti viali di Geku porta al NULLA. Chi si occupa di antichità giapponesi dice che l’architettura dei templi Scintoisti ricorda le abitazioni ancestrali giapponesi, questi, che sono stati mantenuti e ricostruiti fino al 1868, rappresentano questo tipo di architettura nella sua forma più pura. (…)

(…) Avendo seguito, ad Ise, lo Scintoismo fino al suo centro, quell’edificio di semplice legno assumeva una grande importanza, il cuore del recinto di Geku, il Santo dei Santi dello Scintoismo, ma anche qui non c’era niente altro che una delusione (…)

Fosco Maraini “Ore Giapponesi”, Corbaccio, 2000 (nuova edizione), paragrafi tratti da pp. 178 – 183

(…) Che ci sia almeno un palazzo, una colonna, una torre, un monumento?

Nulla di tutto ciò. Le linee d’assenso spirituale, di comunione poetica, di dolce calore emotivo che partono da quasi cento milione di uomini e donne al lavoro sui campi, sul mare, fra i monti, nei cantieri di Yokosuka, nelle officine di Kawasaki, nei laboratori di Osaka, nei grandi magazzini in Ginza, nelle università, negli aerei, nelle miniere, nelle banche, nelle sedi delle società finanziarie, negli uffici di commerci internazionali e delle industrie più moderne, convergono invisibili ad una piccola, nuda, disadorna capanna costruita di cipresso e coperta di paglia, in purissimo stile preistorico. (…)

(…) oltre queste cortine s’intravedono i tetti dei piccoli templi nella radura, con i loro chigi, le loro travi ornamentali a croce, che fanno subito pensare ai mari del Sud. Gli effetti di sì lungo accesso, di tanti preparativi, di un’aura di prodigio e di sacro così sottilmente diffusa sin da quando si traversa il fiume e si passa sotto il primo torii, non potrebbero cumularsi con più intensità. Qualsiasi monumento, qualsiasi mausoleo sarebbe una delusione; questi arcaici tempietti da favole no. É come essere immessi per privilegio estremo all’alba dei tempi, non so, la sera che l’uomo scoprì il fuoco, o il mattino che inventò la parola, un momento decisivo e stupendo della storia della specie.(…)