Quando arriva la nostalgia

La parola nostalgia  nella nostra lingua contiene due parole di origine greca: νόστος (nòstos), il ritorno, e άλγος (àlgos), il dolore. E’ il dolore del ritorno, o meglio, il dolore per un ritorno che tarda o che non potrà verificarsi, il desiderio intriso di tristezza per persone, luoghi e atmosfere vissuti che sembrano, nel momento in cui si prova la nostalgia, ormai lontani, nel tempo e nello spazio. Nella Grecia antica i nòstoi erano i racconti dei ritorni, come quelli degli eroi greci che, una volta finita la guerra di Troia, finalmente rientravano a casa. Il nòstos più famoso è l’Odissea, un racconto divenuto emblema stesso del viaggio, dell’anelare al luogo mitico che è casa, luogo che sembra quasi non voler più farsi trovare, allontanandosi di continuo. E Odisseo, o Ulisse che dir si voglia, che da una spiaggia tende le braccia verso il mare, pieno di nostalgia per la sua Itaca, è parte del nostro immaginario culturale sin da quando impariamo ad ascoltare le storie. Anche se, una volta che l’isola natale è raggiunta, piace immaginare che per Odisseo la nostalgia divenga quella per il viaggio, per lo scoprire, conoscere, continuare a vagare. Un ritorno che non si chiuderà mai in se stesso, ma proseguirà in eterno come desiderio di andare oltre, di rivivere quel vagare.

Credo che ad ognuno capiti di provare nostalgia. Il voler tornare a qualcosa che tuttavia non potrà mai essere lo stesso. Anche i luoghi vissuti in un tempo precedente, e che magari riusciamo a rivedere, talvolta non si ripresentano esattamente così com’erano, e tuttavia li riviviamo con il colore che donano loro i nostri ricordi. E ci rendiamo spesso conto che non sono i luoghi ad essere cambiati più di tanto, ma siamo noi. Questo stesso riprovare a cercare le sensazioni che luoghi, situazioni o persone ci hanno donato è un momento pieno di nostalgia. Eppure, per quanto questa sia qualcosa che in qualche modo provoca una sorta di sofferenza, non si tratta di un sentimento negativo, sempre che non ci impedisca di vivere il presente e quanto abbiamo con l’attenzione che esso merita.

Provo nostalgia per molte, moltissime cose, e credo che riservare loro questo anelito sia anche un segno di rispetto e di amore. Non si prova nostalgia per qualcosa che ci ha lasciato indifferenti o ci ha provocato disagio e dolore. Insieme al ricordo, la nostalgia è un modo per continuare a far vivere qualcosa o qualcuno, per riconoscere quale importanza abbia avuto nella formazione della nostra persona e della nostra storia.

Una delle cose per cui provo una nostalgia praticamente quotidiana è il Giappone. Ridendo, talvolta consiglio a chi non ci è mai stato e mi chiede consigli di andarci senz’altro, ma di prepararsi al fatto che non potrà più fare a meno di tornarci, perché il mal di Giappone è una brutta bestia. A volte mi basta pensare agli ombrelli trasparenti che si comprano al conbini per farmi prendere dal magone. Tanto più che non sono mai riuscita a portarmene a casa uno, di quegli ombrelli, visto che in valigia non ci stanno. Ironia a parte ogni giorno ci sono suoni, profumi, particolari che mi ricordano il Giappone, e vengo colta dalla nostalgia, sognando il momento in cui potrò tornarci di nuovo, per viverne nuovi aspetti, vederne nuovi paesaggi, riviverne altri con gli occhi delle esperienze precedenti.

Durante il primo viaggio in Giappone, in qualche modo sentivo dentro di me che nel futuro non sarei mai riuscita a stare troppo lontana da questo paese, possibilità permettendo, ovviamente. Era una sensazione inconscia, che si palesò quando, a Kyoto, insieme al gruppo con cui mi trovavo ci fermammo nei pressi di un tempio che non era previsto nell’itinerario, e la cui visita avrebbe richiesto un po’ di tempo, per cui, in quel momento della giornata, si sarebbe un po’ sballato il programma. Oltretutto, il tempio stava anche per chiudere. Anche per una questione di stanchezza, nessun altro voleva fermarsi, e quindi rinunciai anch’io. Di templi ne avevamo visti parecchi, quel giorno, e comprendo che sia anche un po’ difficile starmi dietro, visto che io di visitare templi e santuari non mi stancherei mai (nei viaggi da soli che abbiamo fatto gli anni successivi, mio marito mi accusa sempre di fargli venire la “templite”, visto che ad ogni tempio o santuario mi fermo). L’accompagnatore, vedendo la mia faccia un po’ sconsolata, mi chiese se fossi sicura di non volerci andare comunque. Io, senza nemmeno rendermene conto, risposi “Non importa, ci tornerò la prossima volta”. Al che lui rise e replicò che quello era lo spirito giusto. Quelle “prossime volte” si sono ripetute, eppure devo ancora andare a visitare quel tempio. Quel tempio è il Nanzenji, uno dei più belli. In un certo senso, finché non lo visiterò, sarà il luogo che aspetta sempre pazientemente il mio ritorno.