Residenza per signore sole di Togawa Masako è uno di quei libri che avevo puntato da un po’, sulla scia di quella fiducia nel genere noir e thriller che le opere di Seicho Matsumoto hanno risvegliato in me da qualche tempo. Tuttavia, giunta alla fine della lettura, devo dire che l’opera non rientra nei miei gusti personali. Si è trattato quindi di una lettura abbastanza scorrevole, e che presenta qualche spunto interessante, ma niente di più.
La vicenda, ambientata negli anni Cinquanta, ruota attorno ad una vecchia residenza che accetta tra gli inquilini solo donne, con lo scopo di agevolarle dal punto di vista economico e supportarle dal punto di vista della privacy e della protezione dall’esterno. Nella palazzina si stanno eseguendo dei lavori atti a farla scivolare di qualche metro rispetto alla posizione originaria, in modo da permettere di far passare una strada. Il fatto che tali lavori e lo spostamento possano riportare alla luce le prove di un delitto collegato ai segreti inconfessabili di alcune inquiline pervade tale evento di una profonda inquietudine.
La narrazione procede su piani temporali diversi che si alternano, ognuno raccontato in modo diverso. Si va dalla terza persona che narra di quanto accaduto anni prima dello spostamento del palazzo, alla prima persona del racconto di una delle portinaie del palazzo, agli stralci di lettere che una delle inquiline si scambia con altre persone esterne alla residenza, alla terza persona riservata alle singole vicende di alcune delle donne protagoniste. Il fulcro temporale è lo spostamento, che è atteso con grande ansia e timore di sconvolgimenti da parte delle inquiline, come se metaforicamente esso significasse dare una scossa non voluta alla vita di ognuna di loro, che tendenzialmente è come sospesa all’interno della residenza. Uno stato di relativa tranquillità ed apatia, che ognuna controlla seguendo le proprie routine o ossessioni.
Le inquiline sono tutte donne mature, sole, alle quali si percepisce essere mancato qualcosa, oppure alle quali non tutto è andato come avrebbero voluto, tanto da far scegliere loro una sorta di ritiro in un luogo che le preservi dallo sguardo esterno del mondo e dal relazionarsi in modo troppo complesso con gli altri. Ognuna nella propria stanza, ognuna appartenente ad uno dei cinque piani della residenza. Rare occasioni di scambio nelle aree comuni, o in occasione di riunioni o incontri con i sinistri promotori di una sorta di setta i cui rappresentanti sembrano saper tirare fuori i segreti più oscuri delle donne che li interrogano su quanto ricercano, due portiere che si alternano ad assicurare che nella residenza non vi siano presenze non previste che potrebbero turbare la tranquillità delle inquiline. E una chiave universale che può aprire tutte le porte delle stanze, in caso di emergenza.
Quando tale chiave viene sottratta, comincia un periodo di inquietudini e tentazioni: i vari personaggi che vengono in possesso della chiave o sanno della sua esistenza non riescono a resistere all’idea di servirsene per poter spiare nella vita privata di altre inquiline, per vari scopi. Dal voler cercare un riscatto rispetto a chi si è posto sempre come superiore rispetto a loro, toccando con mano infelicità e le bassezze comuni a tutti, al voler cercare prove per un mistero irrisolto.
E tale mistero, il rapimento e probabilmente l’occultamento nella residenza del corpicino senza vita di un bambino, è l’altra linea narrativa che pervade la vicenda. Seguiamo la ricerca di tracce, cogliamo i nessi tra quanto le varie inquiline cercano di celare, tutto si intreccia e coincide sino a portare ad una soluzione. Ma sarà davvero tutto come appare?
Lo stile è asciutto e crea quella sensazione di disagio, brama insoddisfatta e decadenza che aleggia nella residenza e nelle vite delle varie persone che vi risiedono. Si entra a spiare nella vita di queste donne insieme a chi, tremando e in ansia per timore di un rientro improvviso, usa la chiave universale per entrare e dare un’occhiata a quanto l’oggetto della propria curiosità o sospetto conserva gelosamente, quei segreti inconfessabili che potrebbero far crollare le poche illusioni costruite per non pensare a come sia andata la propria vita. Si percorrono i corridoi bui, i cortili e i locali abbandonati, si ascoltano i rumori.
Quello che non mi convinta è proprio come sviene svolta la narrazione, un alternarsi di storie che in alcuni casi un po’ disperde l’attenzione, e come poi viene conclusa tutta la vicenda nelle ultime pagine. Si tirano i fili troppo in fretta e in una direzione tutta diversa, ecco. Mi ha dato l’impressione come di un cambiamento di idea all’improvviso, a discapito di quanto era stato approntato prima nel resto del romanzo. Cosa che sicuramente è frutto di una scelta precisa dell’autrice, tra l’altro grande autrice di noir, e non certo soluzione derivata da imperizia, trattandosi pur sempre una tecnica narrativa, ma personalmente come lettrice non la apprezzo.
Una lettura che volevo fare, che mi lasciato un po’ di sensazione di disagio e un certo senso di incompletezza e insoddisfazione per la conclusione. Nonostante tutto significativa per lo scorcio di quotidianità femminile di un Giappone che si sta ancora riprendendo dalla guerra e le cui donne cercano una propria dimensione, talvolta con la solitudine come unica soluzione.