La signora della cotoletta

IDicembre 2018. La prima città in cui soggiorniamo, questa volta, è Sendai, che volevo vedere da tempo. Dopo una mattinata trascorsa tra i mausolei della famiglia Date e il museo, arriviamo all’ultima tappa che ci siamo prefissati, il santuario Osaki Hachimangu. Scendiamo alla fermata del loop bus, e mio marito mi fa notare che sono quasi le due del pomeriggio, e che ha piuttosto fame. La zona in cui siamo tuttavia è lontana dal centro, e non ci sembra di vedere intorno a noi dei locali, magari con una rassicurante vetrina che mostri le riproduzioni in plastica dei cibi serviti all’interno, o il menù in inglese.

Ci guardiamo intorno, già un po’ rassegnati a saltare il pranzo, e io scorgo, proprio di fianco alla via che si snoda poi sotto il torii che conduce al santuario, una tendina con la scritta “Tonkatsu” in hiragana. Il posto, proprio davanti alla fermata, sembra quasi uno di quei chioschi che trovi nelle spiagge e che durante l’inverno sono chiusi. Una piccola insegna con scritto “Coffee” e alcune piantine oltre le vetrate coperte di tendine danno inoltre l’impressione che possa trattarsi addirittura della veranda di una casa privata. Tuttavia, mi faccio coraggio, vista la scritta che promette il tonkatsu, e dico a mio marito di provare lì.

“Ma non è nemmeno un locale!” mi dice lui sconsolato. Io insisto, ribadendo che in quel posto dovrebbero servire la cotoletta panata, che tra l’altro è anche un piatto che ci piace. Quindi, faccio per entrare.

Dentro, una stanza che pare proprio quella di una casa: ci sono un tavolo sulla destra con una famiglia asiatica piuttosto silenziosa che sta mangiando, mentre sulla sinistra ci sono altri due o tre tavoli a due posti. Non appena entriamo, noto una signora con un grembiule da cucina, i capelli grigi un po’ mossi e l’aria agitata, che ci guarda un istante e poi corre fuori dal locale portando con sé delle carte, agitando un po’ le mani come per scusarsi. Mi volto verso mio marito, che è restato sulla soglia, un po’ perplesso. “Sì è spaventata nel vedere due stranieri” commenta. Non sarebbe d’altra parte la prima volta che ci capita di non riuscire a mangiare in un locale perché i camerieri o i gestori non parlano una parola di inglese e si ritrovano talmente a disagio da farci decidere di toglierli dall’imbarazzo e lasciar perdere.

La signora tuttavia torna. Io le chiedo in giapponese se va bene che prendiamo posto in uno dei tavolini da due, e lei mi fa dei grandi cenni di assenso, sempre un po’ agitata ma, noto solo in quel momento, non perché sia a disagio, ma con quell’agitazione da nonna o zia che deve preparare un sacco di roba da mangiare per il pranzo. Una di quelle donne di una certa età che non riescono a restare ferme per più di due secondi. Il locale è, come mi piace definire questo genere di locali, un po’ arruffato. L’odore di fritto è delizioso e fortissimo. Le pareti avrebbero bisogno di essere ridipinte, e hanno appese decorazioni floreali di plastica e qualche poster consunto. C’è un orologio a pendolo fermo e un fornelletto con un bollitore che brontola, giusto davanti al bancone dove ci sono la cassa, dei bicchieri, riviste e chincaglierie varie. Dietro il bancone, la cucina, dove si vede la friggitrice che la signora muove con perizia, agitando il cestino di metallo dentro e fuori l’olio. La signora ci porta un menù dove c’è una sezione anche in inglese. Fanno solo tonkatsu, come ci aspettavamo, con alcuni tipi diversi di carne di maiale, più o meno grassa. Le descrizioni in inglese fanno sorridere, alcune dicono qualcosa del tipo  “E’ davvero succulenta, e fa bene alla salute, ti rigenera!”. Il tavolo dove siamo seduti è piccolo, ci sono alcune salse e tutto ha l’aria di essere alla buona e un po’ consunto. La signora ci porta due bicchieri d’acqua e ci mette una caraffa vicina per potercene versare altra da soli. Ordino per me e mio marito, e lei annuisce tutta intenta. Mio marito continua ad essere perplesso, visto l’aspetto del posto “Ho paura che sarà una delle nostre peggiori esperienze culinarie in Giappone”, profetizza. Io resto tranquilla e gli dico di non essere così pessimista.

Nel frattempo, un signore entra nel locale e parla con la signora, dicendole, tra molti inchini “Grazie per avermi riportato le mie cose”. D’un colpo capisco perché la signora fosse uscita correndo, poco prima: un cliente si era dimenticato il pass giornaliero dell’autobus e altri documenti, e lei l’aveva rincorso per restituirglieli. Come le apparenze possono trarre in inganno, a volte. Dopodiché, la signora torna in cucina. Sentiamo un rumore ritmico, velocissimo e che si riconosce immediatamente, quasi in modo istintivo. E’ la signora che sta affettando il cavolo cappuccio, da servire insieme al tonkatsu. Quando arrivano i nostri piatti, ritrovo davanti a me una delle cotolette più belle e più spesse che abbia mai visto. La signora ci spiega quale salsa mettere sopra, mi mostra anche come aprirla, e sgattaiola via per lasciarci mangiare tranquilli.

Delizioso. Un sapore pieno, ricco, la consistenza morbida e succulenta della carne e il croccante della frittura, che tuttavia sembra sciogliersi in bocca con leggerezza. Mio marito, dopo il primo boccone, mi dice “Il tonkatsu più buono che abbia mai mangiato sinora in Giappone”. Io sorrido tutta fiera, ricordandogli il suo pessimismo di poco prima.

Quando la signora torna, una volta che abbiamo finito, io le dico “Era delizioso”. Lei si illumina, con un sorriso un po’ timido. “Yokatta!” dice, e quindi prende un po’ di coraggio. Mi chiede di dove siamo, mio marito le dice Italia. Lei mi dice in giapponese che in Australia di certo non fa così freddo come in quei giorni lì in Giappone. Io sorrido per il fraintendimento e comincio a buttarmi un po’ con il giapponese, spiegandole che veniamo dall’Italia, da Venezia. Lei ride a sua volta e l’ombra dei ricordi le attraversa il viso. “Sono stata in Italia tempo fa, anche a Venezia. E’ davvero bellissima. Però il posto che mi è piaciuto di più in Italia è…non ricordo il nome” riflette un attimo “Vicino a Napoli, c’era un posto che si chiamava blu…blu…” va verso il bancone, dove ci sono tutte le riviste, e tira fuori un depliant. “La Grotta Azzurra di Capri” dico io, vedendo alcune immagini famigliari, e lei annuisce. “Siamo entrati con una barca per vederla, ad un certo punto era talmente bassa che ho dovuto abbassare la testa, altrimenti avrei colpito le rocce”. Parla velocemente, io comincio a fare un po’ fatica nel seguirla, e lei se ne rende conto. Ci scambiamo degli sguardi che lasciano intendere che ci vorremmo raccontare ancora molte cose. Quindi ci congediamo ringraziandola. Lei ci ringrazia a sua volta “Oggi fa freddo, copritevi bene. Mi raccomando, attenzione a non dimenticare niente”.

Usciamo soddisfatti, sia del cibo che della breve conversazione. I nostri giubbotti si porteranno dietro l’odore del fritto per almeno tre giorni, ma ne vale decisamente la pena. Questi sono i momenti che conservo più volentieri tra i ricordi del Giappone, ogni volta.