Qualche giorno fa, non appena ne è iniziata la programmazione in Italia, sono andata a vedere insieme a mio marito “Silence”, di Martin Scorsese.
Era un film che attendevamo da tempo, dal momento che tratta un aspetto della storia giapponese che abbiamo sempre trovato molto interessante: il rapporto con gli stranieri e l’esperienza della tentata evangelizzazione del Giappone ad opera dei missionari gesuiti e francescani, tra la seconda metà del XVI secolo e l’inizio del XVII. Mio marito ha dedicato la sua tesi di laurea a questo argomento, ed era davvero entusiasta per l’uscita imminente di quest’opera cinematografica.
Anni fa lessi il romanzo di Shusaku Endo da cui è stato tratto questo film, che Scorsese ha ammesso di aver avuto in mente da anni. Mi colpì la profondità del romanzo, così attento a presentare il dilemma esistenziale di chi si trova a dover fare i conti con il “silenzio” del Dio cui ha dedicato tutta la propria vita, trovandosi ad affrontare un contesto in cui tutto quello in cui ha creduto viene messo in discussione, in cui il martirio rischia di svuotarsi del suo significato, e in cui quello che sembra davvero restare è il messaggio più profondo del Cristianesimo, ovvero l’amore al di sopra di ogni altra cosa, l’amore disposto a qualsiasi sacrificio per il bene del prossimo, all’impensabile che si credeva non si potesse contemplare. Insieme alla tragedia interiore del protagonista vengono presentate anche tutte le questioni legate ai difficili rapporti con una cultura “altra” che forse non si è compresa affatto, credendo che il proprio concetto di verità e visione del mondo possa essere lo stesso ovunque.
L’opera di Scorsese trasmette perfettamente questi concetti. Con una narrazione lenta, meditata, riflessiva, mostra tutto il doloroso percorso dei due giovani padri gesuiti che decidono di affrontare i pericoli di un viaggio in Giappone nel momento in cui l’ingresso ai missionari è assolutamente vietato. Loro scopo è ritrovare il loro padre spirituale, Ferreira, del quale non si hanno più notizie, se non quella, inaccettabile per i due giovani, che il fervente missionario avrebbe abiurato, cedendo alle persecuzioni in atto nel paese. Giunti in Giappone, incontrano gli ultimi della terra, pescatori e contadini che hanno praticato per anni la fede di nascosto, i kakure kirishitan, i “cristiani nascosti”, che sfidano le persecuzioni e appaiono bisognosi di una figura clericale come la loro. Inizialmente commossi e pieni di fervore per quello che sembra essere proprio lo scopo della missione così come predicato dal Cristo, ben presto i due gesuiti si trovano a dover affrontare non solo il terrore delle persecuzioni, con l’annesso senso di colpa per essere in qualche modo causa delle morti orribili che vengono inflitte come esempio alla povera gente che non abiura la religione degli stranieri, ma anche la frustrazione per il fraintendimento da parte dei giapponesi della propria religione, dovuto a profonde diversità culturali che tuttavia i padri vorrebbero ostinarsi a non considerare, certi che la grazia divina provvederà comunque a salvare l’anima di chi si affida a Dio, pur senza averne compreso davvero il senso.
Il confronto non solo con Ferreira, il gesuita disperso e decaduto, che alla fine il padre protagonista, Rodrigues, troverà, ma anche con le autorità locali alle quali il giovane si trova a dover rispondere, non fa che mettere in luce proprio il centro del problema, l’errore di fondo nel voler instaurare una religione con determinate caratteristiche in un paese che di base, per propria natura e cultura, non può essere terreno fertile per certi concetti su cui tale religione si basa. Un problema ignorato dai missionari per troppo fervore, per ignoranza, per avidità di espandere le proprie strutture, per molte altre cause, tutte concorrenti a far chiudere il Giappone a qualsiasi ulteriore tentativo di contatto di questo genere. Insieme alla descrizione, condotta in modo esemplare, di queste problematiche macroscopiche, assistiamo in tutto al film alla tortura interiore di padre Rodrigues, che si interroga su Dio e sul suo silenzio di fronte al dolore, al tormento e all’angoscia spirituale di chi a Lui si affida, senza ricevere risposte. Pieno di fede, sostenuto dall’immagine conservata nel suo cuore del volto di Cristo, il giovane gesuita dovrà affrontare il sacrificio più grande, guidato proprio dalla voce di Colui che si fece uomo per gli uomini, e che per la salvezza di questi fece dono di se stesso.
Come già detto, il ritmo del film è calmo, meditativo, pur presentando spesso orribili scene di esecuzioni e torture. La colonna sonora è ridotta al minimo, non vi è un tema che accompagni la narrazione, sentiamo i suoni della natura, come l’assordante frinire delle cicale, lo scrosciare delle onde, le preghiere, le grida di dolore, palpiti simili a percussioni che imitano quasi i battiti di un cuore. Non vi sono paesaggi idilliaci, ma poveri villaggi di pescatori, sporchi e immersi in una natura selvaggia e del tutto indifferente alle vicende umane: mare, rocce, foreste e montagne. Lo spazio ove operano le classi sociali più alte è quello dell’autorità: le prigioni, i cortili e le stanze dove avviene il confronto con l’inquisitore, il tempio. Non è un Giappone di sogno quello che viene presentato, ma un Giappone crudo e realista, che proprio nella sua aderenza priva di abbellimenti riesce a trasmettere la dimensione storica dell’epoca.
Un film che ho apprezzato molto, del quale non ho avvertito minimamente la durata considerevole, che tuttavia riconosco potrebbe risultare piuttosto ostico per chi non fosse minimamente interessato a questo particolare argomento storico, dato che vengono fatti anche molti riferimenti ad eventi e personaggi legati alle vicende del Cristianesimo in Giappone, e vengono trattate tutte le questioni legate a questa esperienza. Gli attori sono straordinari nella loro interpretazione, soprattutto Andrew Garfield, nel ruolo del protagonista. Da parte mia, non posso che ringraziare Scorsese per essersi cimentato in questa magnifica opera.