“So di non sapere”. Una frase che è entrata nell’immaginario di noi tutti, attribuita a Socrate tramite le parole di Platone. Un pensiero fondamentale, che descrive come sia importante, per lo meno, avere la consapevolezza di non sapere molte cose. Mi è tornata in mente oggi, durante una discussione con un collega. Parlavamo della triste tendenza, sempre più diffusa, di pretendere di sapere tutto come e meglio di coloro i quali sono davvero esperti di qualcosa. Dell’arroganza di chi forte del vociare colto qui e lì, e basandosi su fonti discutibili vorrebbe imporre la propria visione sfalsata e superficiale a chi magari è uno specialista di qualche campo. Dell’appiattimento della cultura che viene banalizzata, piegata e livellata verso il basso, in nome di una sorta di sapienza sfilacciata che tutti pretendono di avere, pur non avendo mai dedicato nemmeno un’ora ad un argomento prima di mettersi a litigare sulla rete e nel mondo “fisico” pretendendo di avere lo stesso grado di conoscenza degli esperti di un settore.
Il mio collega mi ha raccontato quindi dell’effetto Dunning-Kruger, che non conoscevo.
Si tratta del fenomeno per cui qualcuno, meno ne sa di qualcosa, più crede di saperne. Per contro, mano a mano che si avanza nella conoscenza di qualcosa, ci si pongono sempre più dubbi e ci si convince di non saperne abbastanza. Entrambe le tendenze sono visioni sfalsate della propria competenza e sapienza circa un argomento. Chi sa poco è convinto di sapere molto, chi comincia a sapere molto si trova a credersi meno sapiente di quanto sia davvero, a sottostimarsi. Gli incompetenti insomma hanno pochi dubbi circa le proprie capacità, credendo anzi che gli altri, e non loro, siano incompetenti. Mentre le persone con un alto grado di conoscenza tendono a concentrarsi su quanto in realtà ancora non sanno, e spesso perdono fiducia in sé stesse (a beneficio di chi ne sa meno di loro, in realtà).
Si tratta di teorie recenti, anche se hanno appunto radici più remote nel tempo. Sin dall’antichità appare infatti la riflessione un po’ amara circa il fatto che chi ignora crede di sapere tutto, mentre chi sa di solito è consapevole di non sapere molte cose.
Cercando di fare un po’ di autocritica, ho pensato a me, cercando di analizzare quella che è la mia passione per il Giappone. Quasi una quindicina di anni fa, quando ho iniziato a coltivarla in modo più approfondito, c’era in me una sorta di snobismo, per cui credevo di saperne molto di più rispetto ad altri. Per carattere non sono portata a contestare, o a far sfoggio di quel che credo di sapere per mettere qualcun altro alle strette o ottenere vantaggi. Mi tenevo quindi per me la convinzione di una conoscenza più profonda di quanto non fosse in realtà. Non espressa, ma pur sempre presente. Insieme a quella sorta di gelosia per un argomento cui si tiene che spesso coglie chi comincia a dedicarsi ad una passione, credendo di essere vero e proprio custode della stessa, l’unico a comprenderla veramente nella sua essenza, e altre illusioni simili. Questo è dovuto forse al desiderio di volersi sentire speciali, diversi dagli altri e migliori degli altri. Nel corso degli anni, mano a mano che lo studio continuava, mi sono resa conto sempre di più che invece c’è tanto, tantissimo che non so e che devo coltivare – come lo studio della lingua, ad esempio, che è sempre un po’ altalenante – e che il percorso non finisce mai. Oggi sono felice quando leggo o ascolto altre persone che amano lo stesso argomento e scopro cose che ancora non so. Come mi stupisco di quanta sicurezza abbiano invece persone che si pongono come depositarie della verità e invece sanno pochissimo.
Oggi come oggi, mi verrebbe da dire che io del Giappone so ben poco, e che forse non lo capirò mai del tutto. E la sua bellezza è anche in questo suo pormi continuamente alla ricerca di qualcosa, a cercare di scorgere altro del tanto che ancora non so, e che una volta scoperto mi aprirà altri scenari da indagare, apprendere, conoscere.