Era un inizio d’estate un po’ sottotono, quello del 2009. Un’esperienza lavorativa – ancora semplicemente uno stage – di quelle che sai essere senza futuro e che apportano più problemi psicologici che benefici, una laurea specialistica in Letteratura Inglese conseguita da più di un anno e mezzo e che, dopo i festeggiamenti, non mi aveva ancora dato segni di poter essermi concretamente utile nella vita, se non per soddisfazione e cultura personale, con le quali da sole però non puoi costruire davvero qualcosa. Quei momenti in cui ti domandi un po’ demoralizzato quale direzione prenderà la tua vita, se mai ti realizzerai davvero come persona, e non sai nemmeno bene tu in che cosa potrebbe consistere la tua piena realizzazione, cosa potresti dare alla società, se solo questa te lo permettesse e fosse davvero interessata a farti crescere, comprendendo e facendoti al tempo stesso scoprire le tue potenzialità.
Seduta al tavolo di legno nella terrazza dei miei, leggevo “Autostop con Buddha”, di Will Ferguson. Nonostante avessi fatto scelte di studio diverse, con il pensiero del tutto personale che forse prima di poter comprendere lingue e culture orientali avrei dovuto conoscere un po’ meglio quelle occidentali, da anni il Giappone accompagnava il mio immaginario e il mio tempo libero. Una collaborazione universitaria come bibliotecaria presso la biblioteca del dipartimento di studi sull’Asia Orientale sembrava inoltre avermi ricordato ancora una volta cosa mi fossi “persa”, ma al tempo stesso mi aveva permesso di accedere a tanti libri che, di fatto, mi rivelavano la bellezza della letteratura giapponese. Inoltre, avevo seguito tempo prima quello che allora era il mio fidanzato, e che sarebbe diventato in futuro mio marito, con la sua tesi di laurea, ascoltandolo innumerevoli volte mentre la preparava, appassionandomi ai testi che aveva utilizzato per la stessa: anche lui, pur non avendo seguito un percorso specialistico in merito, condivideva con me l’amore per il Sol Levante, tanto da improntare la sua tesi sulla storia del Cristianesimo in Giappone.
In quella domenica che era ormai da qualche mese solo preludio a una settimana di tentativi di procacciare clienti via telefono e subdole pressioni psicologiche, leggevo della straordinaria esperienza di Ferguson, del suo voler percorrere in autostop tutto il Giappone seguendo il fronte di fioritura dei ciliegi, e mi sentivo affascinata e al tempo stesso triste. “Tanto” mi dicevo “Io il Giappone non lo vedrò mai”. Alzando lo sguardo dalle parole che raccontavano bellezze e difetti di un mondo lontano, seguivo pigramente gli svolazzi di una farfalla tra i gerani. Divisa tra il desiderio di trovare finalmente un lavoro concreto, che mi permettesse di realizzare qualcosa insieme al mio fidanzato, e l’anelito a voler andare oltre, quel desiderio di visitare mondi lontani vivendo quella cultura che sentivo al tempo stesso totalmente aliena eppure per la quale provavo una sorta di nostalgia nascosta. Per quanto mi interessassi sinceramente a tanti altri argomenti e suggestioni, sembrava quasi che il Giappone mi camminasse sempre accanto, tirandomi ogni tanto per la manica per non farsi accantonare.
Ottobre 2013. Nell’aereo di Emirates che sarebbe atterrato all’aeroporto di Narita nel giro di un’ora, comincio a preoccuparmi. Non che il mio preoccuparmi per qualsiasi cosa sia una novità. Il volo è stato molto lungo, nonostante lo scalo di diverse ore nel magnifico aeroporto di Dubai, per me che sino a quel momento ho preso l’aereo solo per mete abbastanza vicine come Dublino e Praga. Le bellissime hostess hanno consegnato a quasi tutti i passeggeri dei foglietti gialli, da compilare con tutta una serie di dati, che si dovranno consegnare agli sportelli dell’immigrazione, una volta arrivati in Giappone. Arrivate alla fila dove sediamo io e mio marito, appena sposati, ci dicono sorridendo gentilmente che hanno terminato i foglietti, ma che non c’è alcun problema, in quanto li troveremo anche presso l’aeroporto stesso e potremo compilarli direttamente lì. Solita sfiga, penso io, che preferirei scrivere tutto con calma mentre sono ancora seduta in aereo. Per tranquillizzarmi torno a distrarmi con quello che ho fatto sino a quel momento: guardare nello schermo davanti al mio sedile la mappa con l’aeroplanino che si sposta pian piano sopra nomi di posti che, al pensiero giacciano sotto di te in quel momento, senti in qualche modo più concreti, qualcosa di più di un nome su una carta geografica. Alterno con le telecamere che fanno vedere cosa ci sia in quel momento sotto l’aeromobile, e che si possono spostare su pancia, muso e coda dell’aereo. Per gran parte del viaggio non ho visto un tubo, ma mi sono esaltata lo stesso anche per quello che sembrava un tappetino di nuvole. Poi, comincia l’atterraggio. Resto senza fiato di fronte alla realizzazione che tra poco metterò piede per la prima volta in Giappone.
L’aeroporto di Narita è sobrio, quasi dimesso rispetto alla magnificenza vista in quello di Dubai. Con un sorriso ebete e felice che mi accompagnerà per tutta la mia permanenza, cammino con il mio bagaglio a mano lungo il corridoio che conduce ai controlli: dalla vetrata alla nostra sinistra si vede il cielo serale e una luna quasi piena. La luna d’autunno celebrata con poesie e contemplata sin dall’epoca Heian, penso io. Un odore di fondo al primo impatto un po’ strano mi riempie le narici: è un misto del profumo della zuppa di miso e di umido, indefinibile. I foglietti che non avevo ricevuto in aereo si trovano e li compiliamo senza problemi, poi ci mettiamo ad aspettare, in fila nella lunga coda per i controlli. Un signore di mezza età si mette a smistare la gente nei vari sportelli, una volta che si arriva alla fine della coda e al proprio turno, e mi da una leggera spintarella per indirizzarmi verso il numero di sportello giusto. Passaporto, impronte degli indici, foto agli occhi, ed è fatta. Scendiamo delle scale dove ci aspettano le valigie e un altro controllo: una ragazza ha già sistemato tutte le valigie in un angolo, e non appena vede me e mio marito ci chiama indicando le nostre valigie, avendo notato che i trolley che abbiamo con noi hanno la stessa fantasia e le stesse targhette di plastica. Le mie hanno appeso un imbarazzante koala su sfondo rosa confetto, di cui vado molto fiera. Procediamo verso l’ultimo controllo, sperando che non ci chiedano di aprire le valigie, come vediamo stanno facendo con parecchie persone, anche del nostro gruppo. Va avanti mio marito, lo vedo parlare con gli addetti e rivolgere lo sguardo verso di me: subito i due signori mi rivolgono dei grandi sorrisi, e mi fanno cenno di raggiungere mio marito. Chiedo a gesti se io debba far controllare i bagagli, ma mi fanno cenno di proseguire tranquilla, augurandoci una buona permanenza.
Una scritta all’interno dell’aeroporto ti accoglie con un “Okaerinasai”, ovvero “Bentornato”, accanto ad un “Welcome to Japan”. Mi si è formato un groppo in gola per l’emozione la prima volta che l’ho vista. Ancora non potevo immaginare che mi si sarebbe formato ogni volta che sarei tornata, in futuro, nel paese che forse il mio cuore aspettava da sempre.