Troppo turismo in Giappone? Si tratta di una domanda che mi sono posta spesso, negli ultimi anni, soprattutto quelli dopo la pandemia, quando con la riapertura del paese il fenomeno dei viaggi in Giappone è divenuto qualcosa di talmente palese da farsi presente anche nella mia vita quotidiana, dove sento sempre più spesso di persone che, da un disinteresse totale per il Giappone – che magari sino al giorno prima confondevano con la Cina – improvvisamente decidono di fare un viaggio in questo paese. Non occorre poi soffermarsi sul mondo del web, dove nei social le pagine dedicate al Giappone sono centuplicate, e le offerte di guide, viaggi, esperienze nelle varie città del paese sono proposte ad ogni angolo, cercando di sfruttare al massimo una moda che pare persisterà a questi livelli ancora per un po’.
Molti tra voi avranno letto le notizie che riguardano il troppo turismo in Giappone: a Kyoto anni fa si era cominciato con i cartelli dove si invitava a comportarsi in modo civile con geiko e maiko, ora si è dovuti giungere a vietare alcune strade private del quartiere tradizionale di Gion, dove a quanto pare i turisti anche di fronte a divieti e multe non si sono lasciati scoraggiare dall’esercitare varie forme di maleducazione. Oggi leggo della notizia che in una cittadina dalla quale si gode una bella vista del Fujisan si starebbe decidendo di impedire la visuale del monte Fuji che in modo molto suggestivo si staglia sopra un iconico konbini, perché la diffusione di tale immagine su Instagram ha causato frotte di turisti che disturbano piazzandosi lì davanti a cercare di riprodurre con le loro foto lo stesso panorama. (Qui un articolo a riguardo)
Tutti i luoghi dove ci sono bellezze naturali o architettoniche tipiche sono presi d’assalto, di fatto, con code lunghissime per farsi il selfie o la foto di turno. Viene sempre presa come esempio Kyoto, perché in effetti è la città dove l’immaginario di un certo tipo di Giappone tradizionale pare meglio incarnarsi, e poi perché è una città che non sarebbe fatta per sostenere simili flussi. La paragono sempre a Venezia, per quanto riguarda il problema del troppo turismo: a Venezia si sta cercando di tentare la via di una sorta di regolamentazione che a molti fa storcere il naso perché un ticket d’ingresso fa troppo parco divertimenti e parrebbe sottolineare la deriva di un certo tipo di turismo. Personalmente non so come andrà tale tentativo ma trovo che qualcosa andasse fatto.
Ma tornando al Giappone, quello che continua a stupirmi è che un viaggio in Giappone venga scelto come meta con una noncuranza di fondo e un seguire palesemente e senza criterio una moda che talvolta mi lascia come minimo perplessa. La sensazione del “devo mettere una bandierina sull’ennesimo posto visitato” si fa talvolta fortissima, e trattandosi di un paese e di una cultura che amo, trovo avvilente tale superficialità vicina allo sfoggio di un certo campionario di esperienze che possano suscitare una sorta di affermazione di status sociale. Poi accade talvolta il fenomeno per cui chi vi si è recato con tali presupposti tornando si erga ad esperto di qualsiasi cosa riguardi il Giappone, con buona pace di coloro che al Giappone e allo studio della sua lingua e cultura hanno dedicato tutta la propria vita – sia chiaro, non sto parlando di me: io non mi definirei mai “esperta” di Giappone, piuttosto “un’amante” del Giappone.
Abbondano i consigli sui luoghi dove non ci sarebbero turisti, sulle esperienze autentiche, su come evitare le calche – certo, alle sette del mattino in giro per Kyoto non trovi le folle, ma trovi anche quasi tutto chiuso – su cosa mangiare per dirsi davvero esperti, e tutto quel filone di consigli e atteggiamenti per potersi dire “viaggiatori”, non “turisti”. Sentirsi dare del turista pare ormai quasi un insulto, perché tutti vogliono definirsi viaggiatori, fa più bello, fa persona speciale e distinta dalla massa. Tutto questo ricercare l’esperienza autentica non fa altro che rendere affollati ulteriori luoghi che magari prima erano tranquilli, trasformandoli di fatto nell’ennesimo punto turistico pieno di altri turisti stranieri che ti guardano in cagnesco perché sei lì anche tu e gli rovini l’esperienza.
Ci sono poi quelli che ostentano la propria unicità come fossero gli unici depositari dei misteri e della bellezza del paese, che soli possono capire quale esperienza mistica sia il mettere piede in un paese che è talmente sacro che è già un miracolo che sia permesso a degli stranieri di sfiorarlo anche solo con lo sguardo, coloro che fuggono dalle strade affollate piene di orde affamate di selfie, per andare a immergersi nella natura vera con le persone del posto, ottenendo il rispetto e lo stupore da parte di queste ultime, che le vedono sicuramente come qualcuno che finalmente ha compreso una filosofia di vita tutta particolare e il rispetto dovuto al paese, e può forse dirsi quasi per elezione uno di loro. Tutti gli altri sono dei turisti buzzurri, ovviamente.
Vorrei sottolineare che non sto parlando solo di turisti italiani – che, da un po’ di tempo a questa parte ci tengo a dirlo, mediamente sono molto più educati dei turisti di altre nazionalità – ma di atteggiamenti generalizzati da parte di persone di diverse nazionalità che riguardano il fenomeno turismo in Giappone.
Il mio tono è ironico perché personalmente trovo negativi entrambi gli atteggiamenti: sia di chi si approccia come stesse andando in spiaggia vicino a casa o al parco tematico con i paesaggi in cartonato davanti ai quali piazzarsi per fare i selfie, sia di chi crede che un paese sia esclusiva proprietà del proprio immaginario romantico e che nessuno oltre a lui abbia il diritto di visitarlo, perché non ne è degno. Sono estremi che non risolvono i problemi derivati dal troppo turismo in Giappone, e che con la visione reale del paese in quanto tale hanno poco a che fare. Tra l’altro, io credo che anche il Giappone, come tutti i paesi, debba essere prima di tutto considerato come un paese reale fatto di persone reali, non un luogo preposto unicamente a soddisfare un immaginario. Per quest’ultima cosa, appunto, ci sono i parchi divertimenti, che non a caso sono dei non-luoghi per eccellenza.
Tra l’altro, io per prima faccio mea culpa dicendo che nei primi viaggi guardavo gli altri turisti con una certa supponenza, certa che nessuno ne capisse niente e che io ero diversa. Poi si cresce, e se si continua a cercare di conoscere ci si rende conto che si sa sempre troppo poco, che quello che credevi sino al giorno prima magari era basato su fraintendimenti e presupposti sbagliati, e che si era degli arroganti. Ora mi piace vedere la gioia vera nei volti di chi è felice di essere in Giappone, quella felicità stupita di chi non sta mettendo una bandierina ma sta realizzando un sogno. Ho visto anche indifferenza e atteggiamenti automatici da vacanza media di cui dare testimonianza a favore di social, e ho visto anche quel fastidio che un tempo provavo anch’io.
Ma allora, potrebbe essermi chiesto, come si risolve il problema? Al momento credo che non ci sia una vera e propria soluzione, e che ci si possa augurare solo una migliore gestione. Che purtroppo può passare anche attraverso divieti o regolamentazioni che possono limitare le possibilità di fare determinate cose. Sino a che, forse, la moda passerà e si tornerà a flussi meno eccezionali.
Ovviamente il comparto turistico non può che essere felice dell’aumento esponenziale degli arrivi e del porsi del paese come meta attrattiva, anche se il troppo turismo in Giappone magari fa imprecare i residenti, di fronte alle difficoltà oggettive che causa alla vita quotidiana delle varie città, quando non si riescono a gestire dei flussi eccezionali.
D’altra parte non si può impedire a chi desidera recarsi in un luogo scelto come meta della propria vacanza di godere delle bellezze che tale paese offre, dicendo che c’è troppo turismo in Giappone e che quindi si dovrebbe evitare di andarci se non si è convinti o non si è appassionati del paese da tot tempo – sono ironica. Volere una foto ricordo in un posto rappresentativo del bello di una cultura è normale, è assurdo pensare che una persona che si mette educatamente in coda per attendere il suo turno e potersi fare una foto sia qualcuno che non capisce niente. Voler provare delle cose che forse non si avrà più occasione di poter vivere altrove perché tipiche di un certo contesto è parimenti comprensibile. Educarsi al rispetto e informarsi un minimo prima della partenza è invece un dovere da parte di chi sta per recarsi come ospite in un altro paese. Un viaggio può essere un punto di partenza o un punto di arrivo, a seconda di come lo si vive. O può essere una bandierina per il proprio ego. La scelta è sempre di chi intraprende il viaggio, conscio di tutte le risorse – materiali e immateriali – che tale esperienza richiede.