Cronache giapponesi, di Nicolas Bouvier, è un libro sul Giappone scritto da questo famoso fotografo e scrittore svizzero. Si tratta di un’opera a metà tra la storia di questo paese, che viene riassunta per quasi tutta la prima parte del libro, e il diario di viaggio, con le esperienze dell’autore riportate con grande maestria nel descrivere sensazioni, ambienti e persone. Gli anni in cui Bouvier vive il Giappone sono quelli tra gli anni Cinquanta e Sessanta, con un Giappone che ancora sta cercando di riprendersi dalla guerra, con la miseria e una variegata umanità che fa del suo meglio per sopravvivere.
Tutta la prima parte (La lanterna magica) dedicata alla storia del Giappone, è molto interessante e raccontata con scorrevolezza e una buona dose di ironia che può, a mio parere, piacere o meno anche quando può apparire leggermente dissacrante. Tuttavia ho preferito le parti dedicate alle esperienze vere e proprie dell’autore, come il racconto dei suoi giorni tra le persone umili nei quartieri meno raccomandabili (1956, l’anno della Scimmia), o come il suo alloggiare presso un tempio (Il Padiglione della nuvola augurale. 1964), che gli fa cogliere l’occasione per parlare anche dello zen, del quale, sottolineerà più volte, sa giusto quel minimo necessario per poter dire di non saperne granché:
Io non sono stato un granché studioso: quello che so oggi dello Zen mi permette appena di misurare quanto ne sia ignorante, e quanto questa mancanza mi sia dolorosa. Mi consolo dicendomi che, nel vecchio Zen cinese, era tradizione preferire, per succedere al maestro, il giardiniere che non sapeva nulla al priore che ne sapeva troppo. Ho conservato intatte le mie speranze.
Nicolas Bouvier, Cronache giapponesi, traduzione di Paola Olivi e Beppe Sebaste, Feltrinelli, p.150
C’è grande onestà in tal senso lungo tutto l’opera nel porsi non come qualcuno che voglia disvelare un paese, spiegarne usi e costumi sostenendo di averli compresi del tutto, bensì come chi ha vissuto soprattutto la suggestione e vuole riportare quanto una cultura ha lasciato nella sua vita. Inoltre, l’autore non si fa alcun problema nel parlare di quanto proprio non fa per lui, senza voler porsi per forza come chi, volendo passare per esperto dice di amare incondizionatamente tutto, anche quanto non rientra nei suoi interessi o gusti.
L’ultima parte (L’isola senza memoria) è dedicata all’Hokkaido, zona che secondo l’autore non godeva di grande considerazione ed è sempre stata un po’ territorio di frontiera. Si scorrono pagine dove sono protagonisti i paesaggi amplissimi e selvaggi, così diversi da tutto quello che solitamente si associa al Giappone e alle sue città simbolo. L’autore racconta degli Ainu, degli aspetti più legati all’utilizzo della cultura tradizionale di tale popolazione a favore del turismo. Non abbellisce nulla, così come fa in una parte appena precedente del libro (1965. Il villaggio della luna), quando narra di un viaggio in un paese semi-nascosto per fare un reportage circa una cerimonia tradizionale, dove, a interessarci più del rito in sé, è la galleria vivissima di tipi umani che incontra, ognuno con reazioni diverse nei confronti degli stranieri, ognuno con i propri difetti ed allegrie.
L’autore appare sempre un po’ fuori posto nel paese che vive e percorre, sempre consapevole di tale sua posizione, divertito e dotato di accettazione in quanto rispettoso ed affascinato da tale cultura. Il che non gli impedisce di far trapelare spesso e volentieri il suo sguardo.
Nel complesso, Cronache giapponesi è un’opera che restituisce un ritratto di anni che, a leggerne, sembrano lontanissimi rispetto a quanto è il Giappone odierno. Proprio per questo è di grande interesse, una cronaca appunto come suggerisce il titolo, circa anni quasi perduti, quegli anni di passaggio, poco prima dell’inizio vero e proprio della ripresa. Si tratta di una raccolta di impressioni, di nozioni storiche, culturali, artistiche e religiose, tutte atte a cercare di creare un ritratto complessivo del paese, sotto uno sguardo personale, proprio come se chi legge vedesse una serie di fotografie e potesse, insieme alle immagini, udire quanto chi le ha scattate ha da raccontare a proposito di circostanze e atmosfere, perdendosi poi ad allargare il discorso.
Personalmente, ho trovato meravigliosi alcuni passaggi molto intimi, in cui l’autore si lascia andare alle riflessioni e a delle sue malinconiche riflessioni e visioni, come ad esempio questa, quando all’inizio spiega di come stia tornando a Kyoto, nel 1964, dopo otto anni , e di come precedentemente fosse giunto da tutt’altro percorso, a piedi lungo l’antica strada imperiale:
Nell’intervallo che separa questi due percorsi, ho l’impressione di essere stato in qualche modo assente dalla mia vita. Sono curioso di vedere chi, tra me e il paese, sia cambiato di più.
Ibidem, p. 12
Oppure, frasi come questa, che mi è parsa molto significativa circa quanto possa aver spinto l’autore nei suoi viaggi e nel suo cercare qualcosa che non sapeva bene identificare nemmeno lui, non solo in Giappone, ma nel resto delle sue esperienze:
Coraggio, siamo molto più uniti di quanto non crediamo, ma ci dimentichiamo di ricordarcene
Ibidem, p.104
Cronache giapponesi è un libro che consiglio anche per leggere una panoramica molto ampia su tanti aspetti della cultura e storia giapponese, raccontata in tono colloquiale e scorrevole. Offre inoltre il ricordo di anni particolari, ancora sospesi. Una vita fa, eppure era appena un attimo fa. Non è un libro che offra una visione romanticizzata, non si pone come celebrazione o con intenti didascalici, ma come testimonianza e riflessione per lo più personale, seppur con occhio fotografico, pronto a cogliere particolari e dettagli preziosi e sorprendenti.