L’isola dei gigli rossi

L’isola dei gigli rossi, di Li Kotomi, scrittrice nata a Taiwan e traduttrice e interprete bilingue giapponese-cinese, è uno di quei romanzi talmente densi da costringere ad una riflessione che dura per parecchi giorni dopo averne concluso la lettura. L’apparente brevità potrebbe ingannare: si tratta di un romanzo colmo di questioni e temi su cui soffermarsi, e che rallentano quella scorrevolezza che tendenzialmente per preconcetto ci si aspetta da opere non così ponderose. Perché L’isola dei gigli rossi è un romanzo pieno di simboli e pieno di cruda realtà, da interpretare e riconoscere, e occorre quindi porre estrema attenzione ad ogni immagine che offre.

Siamo in quello che è un futuro non ben definito, e seguiamo le vicende di Umi, una ragazza senza memoria di sé che si risveglia in un campo pieno di gigli del ragno rosso, in una spiaggia che non conosce. Un’altra ragazza, Yona, la trova e la accoglie nella comunità che abita Isola, dove in una società armoniosa e paritaria una sorta di autorità è detenuta da un gruppo di sacerdotesse, le noro, custodi della storia segreta del luogo, di una lingua riservata alle sole donne e che ogni tanto si recano in un misterioso paradiso al di là del mare, Nirai Kanai, dal quale tornano con quanto è necessario a far andare avanti la vita materiale degli abitanti dell’isola. Umi si impegnerà insieme a Yona per diventare una di queste sacerdotesse, e scoprirà quanto si cela dietro la storia di Isola.

L’atmosfera del romanzo è straniante, in quanto capiamo di essere in un mondo simile al nostro, ci sono infatti strutture e mezzi di trasporto comuni al nostro vissuto, eppure ogni cosa appare come appena scostata dal nostro tempo, c’è qualcosa che ci sfugge di quel tanto che impedisce di focalizzare completamente cosa possa essere successo, con ipotesi che si susseguono fino a che non scopriremo insieme a Umi cosa sia Isola. Molti termini sono presi dalla tradizione delle isole Ryukyu, come ad esempio le noro, che effettivamente erano delle sacerdotesse appartenenti a tale cultura, e lo stesso Nirai Kanai, l’altro mondo sempre nella tradizione delle isole Ryukyu.

I vari temi toccati dal romanzo vengono presentati insieme alla scoperta delle particolarità della vita su Isola che Umi scopre giorno dopo giorno. Pur non ricordando della sua origine, Umi sa che nel luogo da cui proviene le cose si svolgevano diversamente. Lei stessa parla una lingua che, pur riconoscibile per gli abitanti di Isola, ha delle differenze che spesso portano all’incomprensione. La lingua degli abitanti di Isola appare strana alla ragazza, seppur comprensibile con un po’ di sforzo e con la spiegazione di certi termini.

Proprio per quanto riguarda la questione della lingua, credo che questo libro per la traduzione italiana abbia rappresentato una sfida non da poco, in quanto le differenze tra le varie parlate dei personaggi e il motivo per cui Umi non capisce certi termini si dovrebbero intuire immediatamente nell’originale giapponese per via del sistema di scrittura, e proseguendo nella lettura si comprendono dal punto di vista narrativo le ragioni di tali differenze. Il tutto viene spiegato nel glossario con commenti all’edizione italiana alla fine del romanzo, che tuttavia secondo me è da leggersi dopo per non rovinarsi alcuni punti centrali della storia. In italiano queste sfumature si perdono, e personalmente posso solo immaginare la complessità del lavoro della traduttrice, che ha restituito nel modo migliore possibile l’effetto delle parole che Umi non comprende, come suoni il modo di parlare degli abitanti di Isola alla ragazza, e il disorientamento che comporta. Un riconoscere e non essere certi di capire, un intuire che contribuisce all’atmosfera di mistero che avvolge Isola, all’inquietudine circa la verità della sua storia che le noro custodiscono. Un ottimo lavoro di traduzione per un testo decisamente fuori dal comune.

Altra questione è quella dei rapporti di potere che su Isola sono totalmente diversi sin dal nucleo originario che solitamente sta alla base delle società, ovvero la famiglia. Non pare esservi il concetto di famiglia come lo si intende normalmente, e se proprio si vogliono individuare gerarchie, si può dire che sono le noro ad avere una certa autorità, e che queste precludono ai maschi la conoscenza della storia di Isola e della cosiddetta lingua delle donne. Uno dei personaggi principali è un ragazzo, amico di Yona e poi di Umi, che vorrebbe diventare noro ma sa che tale desiderio resterà irrealizzabile, in quanto ruolo riservato alle sole donne. Il tenere nascosta ai maschi – soprattutto a loro ma non solo, in quanto nemmeno i comuni abitanti sanno tutto –  la verità sull’origine di Isola ha le sue motivazioni, eppure anche questa scelta che pare essere necessaria e saggia per mantenere un certo equilibrio cela i semi di questioni che non possono essere liquidate con il togliere conoscenza e limitare il desiderio e l’inclinazione di altre persone, ponendo il genere come discriminante, e quello che i rappresentanti di un certo sesso potrebbero fare. Tematiche che rispecchiano problemi annosi e da sempre presenti nella storia, solitamente a ruoli invertiti. A tale questione in particolare si lega anche il ruolo della religione, a come possa fungere da collante quando non sono presenti le consuete strutture sociali, alla prospettiva necessaria di speranza che può offrire.

Vi è poi il tema dei legami, dell’attrazione, dei sentimenti confusi e intensi che possono nascere tra persone anche dello stesso sesso, e della naturalezza e spontaneità con cui le persone possono decidere di condividere la propria vita privata. I rapporti tra i tre giovani protagonisti sono caratterizzati da un alternarsi di emozioni, di incomprensioni, di affetto e rabbia per promesse apparentemente tradite a causa di come si cambia necessariamente quando gli occhi si aprono ad una prospettiva diversa del mondo che sino a quel momento si era vissuto. Ed ecco quindi a cascata il tema della crescita, della perdita dell’innocenza e dell’armonia che si poteva provare prima di sapere quali fossero le proprie origini, e cosa vi sia alla base di quanto si è sempre dato per naturale e scontato. Crescita, conoscenza, e il carico nell’animo che il disvelare e ritrovare la verità comporta. Il senso di responsabilità nel prendere le proprie decisioni, assumendosi rischi pur di perseguire quanto è parte delle proprie convinzioni ed ideali.

L’isola dei gigli rossi è un romanzo simbolico, avvolto da un’atmosfere di sogno con punte di inquietudine. E gli higanbana, i gigli del ragno rosso che nella tradizione giapponese ricordano una soglia tra vita e morte assottigliata e la comunione con i defunti, punteggiano la spiaggia dove viene ritrovata Umi, l’accompagnano con un torpore dovuto al loro effetto che può essere benefico ma anche anestetico. Ogni cosa troverà poi il suo posto nello svolgersi della storia, ogni simbolo acquisterà ragione di essere, svelando la verità che vuole celare, quella memoria che è rimasta soltanto consuetudine e senso di un sacro che copre altro, quanto è doloroso e spaventoso.

Un romanzo molto particolare, mi ha sorpresa e spiazzata per originalità e per il suo far scoprire pian piano tutto quello che all’inizio appare strano e dall’aria quasi di fiaba un po’ inquietante. Una storia dal sapore fantastico, che mostra un futuro dal sapore distopico in cui si riconoscono semi del nostro presente.

L’isola dei gigli rossi, di Li Kotomi. Traduzione di Anna Specchio, Mondadori.