I gatti di Shinjuku

“I gatti di Shinjuku” di Durian Sukegawa è uno dei libri che ho letto nel mese di giugno. Non ne ho parlato prima perché questo libro, insieme ad un altro, ha suscitato in me tutta una serie di riflessioni per cui avevo bisogno di un po’ più di tempo, per poterne parlare come volevo.

Durian Sukegawa l’avevo già conosciuto con il bel romanzo “Le ricette della signora Tokue”, una storia molto commovente dalla quale è stato tratto anche un film altrettanto bello. Ne “I gatti di Shinjuku” ho ritrovato la stessa dolcezza nel trattare i propri personaggi, nel raccontarli con un garbo e una serenità di fondo che permane anche quando i momenti vissuti dagli stessi sono difficili o tristi. Direi che è proprio questo a piacermi di più di questo autore: è rasserenante da leggere, ti accompagna insieme ai suoi protagonisti in un percorso dove sai che nonostante tutto quello che può succedere, ci sarà quel punto di arrivo in cui troveranno un equilibrio tra il tormentarsi per le svolte non desiderate del proprio percorso e la serenità dell’accettazione di quanto la vita ha riservato loro.

“I gatti di Shinjuku” è ambientato nella zona ormai famosa e gettonatissima dai turisti di Goldengai, nell’intrico di stradine dove tra i localini minuscoli solo pochi avventori condividono posti a sedere gomito a gomito e chiacchiere con i gestori appena dietro al bancone, trascorrendo la notte tra alcol, confidenze e solitudini da ingannare. Siamo nei primi anni Novanta, la bolla immobiliare sta per esplodere, i cambiamenti sono nell’aria, con la città che muta forma per seguire gli interessi di una modernità che non aspetta niente e nessuno. Il protagonista, Yamazaki Seita, che racconta in prima persona delle sue vicende, vorrebbe fare lo sceneggiatore ma si è visto precludere la carriera dal suo daltonismo, caratteristica che a quanto pare impediva di avere anche solo un colloquio presso le varie aziende presso cui aveva intenzione di tentare. Tra un lavoretto e l’altro, finirà poi per inserirsi inaspettatamente nell’ambiente, presso un’agenzia che si occupa di programmi radiotelevisivi, ma facendo cose del tutto lontane dalle sue aspirazioni e per cui si rende conto di non essere portato, come preparare liste infinite di domande per i quiz a premi, continuamente vessato da colui che per avergli dato lavoro vorrebbe da parte sua solo riconoscenza, senza tenere conto delle sue aspirazioni e vere potenzialità.

Durante una serata piena di ansia e frustrazione, Seita capita in uno dei localini del Goldengai, il Kalinka, dove scopre gli avventori intenti in una strana attività: scommettono su quale dei gatti che frequentano i dintorni sarà possibile veder passare da un’apertura sul muro che sta loro di fronte. I gatti hanno tutti un nome e delle caratteristiche che sono riportate anche su un disegno che li rappresenta in modo caricaturale, opera della ragazza che sta al bancone, Yume, giovane apparentemente scorbutica e dallo sguardo strabico. La curiosa attività spinge Seita a volerne sapere di più anche sui gatti e su Yume, e dall’iniziale idea di ricavarne materiale per una trasmissione televisiva che possa finalmente farlo divenire il tipo di autore che vorrebbe essere, tutto evolverà coinvolgendo sentimenti e portando a decisioni destinate a mutare il corso della vita.

Il romanzo ha un tono intimo che, nello svolgere i pensieri del protagonista e tutta la sua incertezza e frustrazione per la propria situazione, racconta di momenti che un po’ tutti potremmo aver attraversato. Le atmosfere uniche di Shinjuku e di Goldengai sono rese benissimo, pare proprio di essere lì, di vederne le penombre e udirne i suoni. I gatti sono il motore della vicenda, perché spingono il protagonista a indagare e relazionarsi con una persona che diverrà fondamentale anche per prendere certe decisioni. I gatti sono anche tramite per riflettere su concetti molto importanti circa la letteratura, il piacere dello scrivere, e per chi si scrive. I gatti sono anche creature che spingono ad adottare un altro punto di vista, a guardare da prospettive non abituali o scontate. Questo vedere certi aspetti  delle cose in un altro modo, che il protagonista in parte sperimenta per via del daltonismo, è anche virtù del mettersi in discussione ed andare oltre la superficie delle cose, oltre quanto è l’apparenza che qualcosa riveste per tutti.

Tuttavia,  sempre innestato su tale fondo di riflessioni, uno dei temi che più mi ha colpita, durante la lettura di questo libro, è la domanda circa il motivo per cui si scrive, se sia sempre inevitabile dar valore a quanto si scrive solo se viene pubblicato o riconosciuto, e a chi ci si dovrebbe rivolgere quando si scrive. Il protagonista desidera scrivere sceneggiati, ma si è visto costretto ad accontentarsi di creare o rielaborare domande da quiz, aiutando a produrre programmi che devono solo intrattenere. Il suo datore di lavoro sostiene sia un’attività importante pensare al pubblico e dargli quello che vuole, senza mettere di mezzo le proprie velleità e infarcire tutto dei propri gusti, che magari non interessano a nessuno che voglia rilassarsi dopo una giornata di lavoro. Punti di vista, questioni dalle molte sfaccettature. Ma ad un certo punto Seita scoprirà che c’è anche una scrittura e un creare che appartengono al privato, e che da quel privato spesso può iniziare tutto, perché si fa radice che può sbocciare oppure no per essere vista all’esterno, ma in ogni caso resta sempre lì a dare vita a tutto quello che seguità. Si tratta della scrittura che può essere rivolta ad una sola persona, ad un interlocutore che riveste un’importanza fondamentale nella propria vita. E per questo interlocutore si possono scrivere anche le cose migliori che siano mai uscite dal proprio animo.

– Non è che ti sforzi di fare cose che non ti andrebbe di fare solo perché piacciano a tanta gente?
– Non so se sia come dici. Però, visto che radio e televisione trasmettono programmi rivolti a tanta gente, è inevitabile che io finisca per pensare alle persone che li seguono dai loro soggiorni.
– E dove sono tutte queste persone?
-Be’, ecco…
Mi tornarono alla mente le teste delle persone che riempivano la stazione di Shinjuku: erano senza dubbio tante.
– C’è davvero tutta questa gente? Pensando di raccontare qualcosa a tutte queste persone che non sai nemmeno se esistono, alla fine dei conti non riesci a raccontare niente, o sbaglio? Non è forse per questo che sei così stanco?

Durian Sukegawa, “I gatti di Shinjuku”, traduzione di Laura Testaverde, Einaudi, p. 83-84

Non solo gli amatissimi gatti, quindi, in questo romanzo. Non solo i pittoreschi vicoli di Goldengai e l’affascinante microcosmo dei suoi localini. Tutto è un contesto in cui inserire i passi di un percorso di vita che porta al riconoscere e seguire quanto l’animo sa essere parte integrante di noi. Non è detto che tutto vada come ci si aspetta o si desidera, perché spesso le vite di chi incrocia la nostra strada seguono vie che non sono sempre visibili al nostro sguardo, e non sono qualcosa che possa dipendere dalla nostra volontà. Tutto quello che si può fare è vivere, e avere la fortuna di trovare magari quella persona a cui rivolgere la parte migliore di sè.