Tlin tlin, un suono d’argento, un tintinnare che immediatamente richiama alla memoria il richiamo gentile dei furin, le campanelle a vento che in estate, in Giappone, si sentono risuonare un po’ ovunque, appese presso gli ingressi delle case o dei negozi. Si ritiene che questo suono possa evocare il refrigerio, tanto ricercato nelle afose giornate estive.
Lo sento per un attimo da casa, mentre sto lavorando in queste giornate di smart working. Una sola volta, mi fa alzare la testa e attendere che risuoni nuovamente. Ma non si ripete. Comincio a pensare possa essere stato un’impressione, o forse il vento che ha cambiato direzione, senza più far danzare quella campanella nascosta che forse qualcuno ha appeso sul terrazzo o su una soglia.
Poi, lo sento di nuovo, mentre cammino lungo le strade che mi videro bambina, nei pressi della casa dove vissero i miei nonni. Vie assolate contornate da case popolari, deserte nel primo pomeriggio di questo giorno di luglio. Sembra un paesaggio dove De Chirico e Hopper abbiano collaborato per rappresentare il silenzio e la sonnolenta attesa di certe zone di città. Tlin tlin. Qualche altra campanella a vento nascosta, che risponde all’aria che di tanto in tanto si leva e che fa vorticare un sacchetto di plastica bianco, smuove le grandi foglie a forma di cuore di un gruppo di alberi alla mia sinistra.
Il cielo è di quell’azzurro biancastro delle giornate afose, nuvole basse verso l’orizzonte più scuro promettono brutto tempo, più tardi. Ed io penso che in questo periodo sembra quasi di essere dentro un furin, sotto la sua piccola sfera di vetro decorato, e che forse il piccolo pendaglio che lo fa risuonare, quando il vento lo muove, siamo noi, che continuiamo a far sentire la nostra presenza, il nostro sorriso dal suono argentino, nonostante tutto.
Dopo questi mesi sospesi, e la ricerca della ripresa della normalità, avverto un vuoto, quella primavera che ci è stata tolta di cui, anche senza rendercene conto, sentiamo tutti la mancanza. Siamo tornati a muoverci, ad osare respirare con quella piccola speranza in più, ma con la sensazione di una crepa nell’animo, la cui posizione non riusciamo ancora bene ad identificare.
Tlin tlin, di nuovo, e ripenso agli assolati pomeriggi giapponesi, alle file di furin appesi ad una struttura di legno che creava una piccola galleria nel Korakuen di Okayama, uno dei tre giardini più famosi del Giappone. Il vento li faceva risuonare festosi, e mi domandavo da dove venisse, quella brezza, in una simile giornata di un agosto rovente.
Mentre cammino in uno dei luoghi della mia infanzia, ripensando al luogo lontanissimo che in questi anni ha completato il mio cuore, mi sembra di scorgere l’ombra di me bambina che fa rimbalzare una pallina di caucciù sul muro di una di quelle case, sull’asfalto liscio.
Il furin nascosto il cui suono sta carezzando la mia memoria tace.