Da tanti anni leggo manga. Si sono uniti in modo del tutto naturale alle mie letture quotidiane, insieme alle loro storie dai mille contesti e registri diversi e allo stile grafico che, non appena mi sono accostata loro, mi appariva così particolare rispetto ai fumetti che avevo sempre letto sino al momento del primo incontro con il fumetto giapponese.
I fumetti sono un’altra delle mie passioni, insieme ai libri. Di ogni genere e degli autori delle nazionalità più disparate. A ripercorrere i vari momenti della mia vita, non c’è stato un solo periodo in cui non ne avessi accanto a me, appoggiati sul comodino, o riposti sugli scaffali della mia camera.
I primi sono stati Topolino, Tiramolla, Geppo, Braccio di Ferro, e tanti altri fumetti e riviste che magari duravano solo qualche decina di numeri, recuperate in edicola come resi che incollavano insieme tre o quattro uscite. I fumetti Bonelli, Dylan Dog sopra tutti, iniziato a leggere quando avevo undici o dodici anni nella casa al mare di un’amica, sedute insieme sul divano a farci coraggio l’una con l’altra, sfogliando con trepidazione le pagine, emozionate per le scene inquietanti che poi ci facevano saltare di paura quando, di notte, scorgevamo dalla nostra cameretta la sagoma di una giacca appesa alla finestra, nel palazzo di fronte.
Poi è arrivata, durante l’ultimo anno delle medie, la scoperta dei manga, di quelle versioni cartacee delle serie animate che seguivo e che non sapevo fossero tratte da dei fumetti. Io all’epoca amavo particolarmente I Cavalieri dello Zodiaco, ogni giorno mi rinchiudevo in salotto, pretendendo quella ventina di minuti di totale solitudine e rigoroso silenzio, per seguire la puntata trasmessa da una di quelle reti sulle quali temevi sempre l’interruzione della programmazione della serie che tanto ti stava appassionando. Ridendo, ho sempre detto che se ho scelto di fare il liceo classico è stata “colpa” di questa serie animata, che ha scatenato la mia curiosità pur già presente circa i miti greci.
Come primissima immagine di un manga ricordo le pagine di Lamù e di Dragon Ball, che il fratello più grande di un’altra amica aveva iniziato a collezionare. Un tratto particolare, vignette dal taglio e dalle inquadrature insolite per me. Questi sono manga, si leggono partendo dall’ultima pagina, e da destra verso sinistra, ci spiegava il ragazzo più grande, divertito dalla nostra perplessità.
Quando ci sono stata per la prima volta, il Giappone legato agli anime e ai manga non era, nonostante tutto, quello che cercavo. La mia idea era quella di un Giappone legato alla sua cultura tradizionale, avevo anzi un certo pregiudizio nei confronti di coloro che invece non vedevano l’ora di immergersi nella parte più pop del paese. Tuttavia, questi aspetti apparentemente più superficiali del Giappone non se ne sono rimasti buoni in un angolo, ma mi sono venuti incontro, ricordandomi che anche loro hanno fatto parte della mia crescita, e non potevo certo accantonarli solo perché mi ero creata l’illusione che di una cultura, per essere presi sul serio come suoi estimatori, si debba considerare solo il lato più alto e accademico.
Non è proprio così, soprattutto in questo paese. Alto e basso si confondono, si mescolano. Non c’è qualcosa di troppo pop o troppo ridicolo e infantile, tutto fa parte del quotidiano, lo plasma in quel mix unico che ti fa rendere conto che, come per ogni cultura, essa è da considerare in tutte le sue sfaccettature, per averne un quadro davvero completo. Che poi, ritenere infantile qualcosa di complesso e dalle infinite varietà come il fumetto in generale, di qualsiasi paese, è un’idea che mi auguro sia ormai superata da tempo. Esattamente come per i libri, che per qualche strano motivo sono sempre ammantati dalla maggioranza delle persone di un’aura di superiorità rispetto ai fumetti, esistono pessimi fumetti e ottimi fumetti, così come esistono pessimi libri e ottimi libri. Per me, si tratta sempre di letteratura, ed arte. Che sia illustrata o narrata a parole, la sostanza non cambia.
Tokyo. Mi trovo a camminare tra file e file di manga, tra vetrine colme di riproduzioni perfette dei personaggi di videogiochi ed anime. I robot che negli anni Settanta arrivarono anche in Italia e divennero il desiderio di ogni bambino, e continuano ad essere un mito anche per quei bambini diventati adulti a cui nulla importa del Giappone, fanno bella mostra di sé, tantissimi, oltre vetri dai quali si affollano in molteplici file. È qualcosa di soverchiante. Vedo, ovunque poso il mio sguardo, tutto quello che non avrei mai pensato di poter avere potenzialmente a disposizione, un giorno.
E ripenso alla me stessa ragazzina, quando, durante l’estate della terza media, compravo TV Sorrisi e Canzoni perché speravo di trovare delle piccole immagini – magari nei riassunti delle puntate che comparivano ogni tanto – dei cartoni animati che all’epoca seguivo, o delle pubblicità di videocassette di anime tratti da videogiochi che mi avevano tenuta incollata in sala giochi durante le mie estati al mare. Immagini che ritagliavo e conservavo, un po’ vergognandomene ma felice di trovare qualcosa sulle cose che mi piacevano, fosse stato anche solo un fotogramma sgranato. Poi è arrivata la scoperta della prima fumetteria, dove tuttavia dovevo selezionare, centellinare la spesa, spesso rinunciando a quanto mi attirava ma era troppo costoso per me ragazzina.
Di fronte alla meraviglia dei negozi giapponesi, mi sento spesso così indecisa da non riuscire a scegliere. Mi prende un lieve senso di colpa, anche, nei confronti del ricordo della gioia semplice di quella me poco più che bambina che si emozionava per delle immagini grandi come un francobollo, trovate in un settimanale con la guida ai programmi televisivi. La nostalgia di un periodo in cui quello che si desiderava non sempre era possibile averlo, e talvolta restava un piccolo sogno all’orizzonte. Eppure, credo che ricordare quale sia stato il proprio percorso, quello che sono state le nostre piccole gioie, le aspettative, e vedere dove ci abbiano condotti i nostri passi, sia un modo per riscoprire ancora più gratitudine per il presente, e sorridere all’idea di un futuro che ancora non sappiamo cosa riserverà. Così come non lo sapeva quella ragazzina che ero io, che sono io.