Questione che tende a proporsi quando si parla del Sol Levante: il Giappone è il paese ideale in cui vivere? In realtà, credo non lo sia, nella misura in cui non può esserlo del tutto alcun paese, perché ogni paese è pur sempre composto da esseri umani, con tutti i loro pregi e difetti. Probabilmente per me potrebbe essere un buon posto in cui vivere, perché molti dei modi di pensare e di comportarsi che trovo in Giappone corrispondono a come io sarei per natura (modo di essere che devo sempre adeguare al paese in cui invece effettivamente vivo, altrimenti, come si suol dire, mi mangerebbero tutti in un sol boccone).
Tuttavia, con ogni viaggio e mano a mano che si approfondisce ogni aspetto di questo paese, all’iniziale ubriacatura di entusiasmo che fa vedere tutto perfetto rispetto alla propria patria, a partire da quando si va in bagno all’aeroporto appena arrivati e lo si trova più pulito di quello di casa propria, si sostituisce un amore consapevole delle zone d’ombra. Un amore che è tale, e non semplice infatuazione, proprio perché permane nonostante queste ombre.
Una delle tante cose che il Giappone mi ha dato è la coscienza di essere in realtà grata di alcuni aspetti del mio paese che sono differenti dalla cultura nipponica. Finché non si vive il confronto e non li si osserva da lontano, immersi in un altro modo di vivere, forse non si riesce a vederli. In generale mi riferisco ad una maggiore tranquillità nel mondo lavorativo, al non congelarsi quando qualcosa, anche una banalità, non va come previsto dalle procedure e bisognerebbe ingegnarsi ed improvvisare, e a una minore pressione per quanto riguarda i ruoli sociali e il proprio percorso personale.
Poi però le tue nascenti convinzioni vengono ribaltate di nuovo da altre esperienze. E ti rendi conto che forse in realtà non hai capito niente. E si ricomincia a cercare di capire qualcosa del Giappone.
È il paese in cui i commessi si inchinano mentre entri in un negozio e dove un ragazzino non fa sedere una donna anziana sul posto riservato in bus, fingendo di ignorarla. È il paese in cui nessuno getta una carta per terra e dove se inciampi e cadi tutti proseguono per la loro strada senza fermarsi a chiederti come va. È il paese in cui sui mezzi pubblici si tiene il cellulare silenzioso e non si parla a voce alta e dove un anziano impreca tra sé e sputa per terra quando tu straniero gli passi davanti. E’ il paese in cui un signore di mezza età trascorre più di un’ora del suo tempo libero per accompagnarti nei dintorni di un santuario, raccontandoti ogni dettaglio del luogo e anche della sua vita privata, e dove un cameriere ti fa sedere in un posto scomodo vicino all’ingresso, poi non viene più a prendere le ordinazioni sino a che tu, rassegnato dopo mezz’ora di attesa, te ne vai dal locale, comprendendo che non sei gradito. Potrei fare molti altri esempi di aspetti positivi e dimostrazione di grande civiltà e gentilezza ed aspetti invece fastidiosi o negativi.
In realtà ci si rende conto che, come dappertutto, dipende dalle persone con cui ci si trova ad avere a che fare. E che la natura umana si somiglia un po’ ovunque per quanto riguarda certi atteggiamenti. Ovviamente il contesto e la cultura in cui si nasce danno una sorta di impronta, immettono su determinati binari che tendenzialmente vengono seguiti dalla maggioranza delle persone per poter mandare avanti la società nel modo che tale cultura ritiene migliore, ma poi ogni persona è un caso a sé, anche quando in superficie tenta di conformarsi.
Nell’ultimo viaggio ho trovato giapponesi che saltavano la fila e un gruppo di donne in gita che stavano facendo un chiasso da sagra in treno. Ho visto bambini maleducatissimi. Ho trovato bagni pubblici sporchi. Sono stata ulteriormente smentita circa mie convinzioni e proprio per questo ancora più felice.
Trovo quindi sbagliato sia sostenere cose del tipo “Il Giappone è il paese perfetto, lì sì che sono avanti, altro che in Italia dove siamo tutti rozzi, maleducati, corrotti e fannulloni” sia il denigrare con le solite osservazioni “Ammazzano le balene, si ammazzano di lavoro e c’è il tasso di suicidi più alto del mondo, sono dei falsi cortesi, sono dei pervertiti”. Perché si tratta di affermazioni che non scavano nella profondità delle cose, prendono solo alcuni aspetti, solitamente anche travisati, di culture che sono molto più complesse degli stereotipi cui si vorrebbe sempre ridurle, e non offrono un vero quadro di quella che è l’essenza di un paese.
Il grande antropologo Claude Lévi Strauss, in una conferenza a Kyoto nel marzo 1988, diceva:
Anche se avessi consacrato l’intera vita allo studio della cultura giapponese – e non sarebbe certo troppo per poterne parlare con un po’ di competenza -, in qualità di antropologo dubiterei ancora del fatto che si possa situare in maniera oggettiva una cultura, qualunque essa sia, nel suo rapporto con le altre. A chiunque non vi sia nato, cresciuto, educato e istruito, resterà sempre inaccessibile il residuo in cui si trova l’essenza più intima della cultura, anche se si padroneggiano la lingua e l’insieme di mezzi esteriori che permettono un approccio con essa. Perché le culture sono per natura incommensurabili. Tutti i criteri ai quali potremmo ricorrere per caratterizzarne una provengono da essa, e dunque sono privi di oggettività, oppure arrivano da un’altra cultura e, per questo, non sono qualificati. Per pronunciare un giudizio valido sul ruolo della cultura giapponese (o di qualunque altra) nel mondo, bisognerebbe poter sfuggire all’attrazione di ogni cultura. Solo a questa irrealizzabile condizione potremmo essere sicuri che il giudizio non è tributario né della cultura sottoposta a vaglio critico né di un’altra da cui l’osservatore, che appartiene egli stesso a una cultura, non può, coscientemente o meno, separarsi.
Claude Lévi Strauss “L’altra faccia della luna – scritti sul Giappone” Ed, Bompiani, 2015 pp. 13-14
Credo che queste parole esprimano perfettamente quello di cui si dovrebbe tener conto quando si cerca di giudicare qualsiasi cultura. Avvicinarsi con quella che è apertura mentale e voglia di scoprire, di vivere quanto quel tipo particolare di contesto può offrirci, senza aspettarsi un certo tipo di trattamento o una corrispondenza perfetta con quelli che sono i nostri sogni, inevitabilmente filtrati dalla cultura del nostro paese natale, che lo si voglia oppure no. Talvolta questa realizzazione di un’aspettativa può realizzarsi, ma non è sempre così. E non bisognerebbe fermarsi allo stesso modo nemmeno alle proprie esperienze personali per poter affermare con sicurezza qualcosa circa un paese: anche questo sarebbe a mio parere non tanto ingiusto, quanto del tutto soggettivo e quindi non valido per tutti e tutto.
Inoltre, se si è davvero interessati a un paese e una cultura, non si possono semplicemente trarre le proprie conclusioni dopo un unico tentativo, sia che questo abbia prodotto impressioni positive sia che esso invece abbia prodotto un’esperienza deludente. In entrambi i casi ci si perde qualcosa di prezioso che la cultura di quel paese che aveva suscitato in noi interesse poteva darci, come ad esempio una conoscenza più reale e uno sguardo diverso sul nostro paese natale, pur con tutti i suoi difetti.