Sera d’inverno a Kyoto

Sera d’inverno a Kyoto, in una notte che dall’altra parte del mondo avrei trascorso in modo del tutto diverso. Ma forse non ha senso interrogarsi su ore che non stanno scorrendo parallele. Qui siamo slanciati verso un futuro fatto di una manciata di tempo che riesce a fare tutta la differenza tra l’aspettare e lo sperare. Qui in questa città, che non vedo per la prima volta, ma che ogni volta mi abbraccia un po’ di più, e al momento del distacco si fa rimpiangere e desiderare, ti sussurra che ci sarebbe ancora così tanto che potrebbe donarti.

Un brusio sommesso proviene da una via stretta accanto all’hotel. Ci sono locali che servono alcolici, e promettono serate di musica e compagnia di altri estranei in vena di chiacchiere e di canzoni stonate sotto un rettangolo di cielo nero, sfumato di un lieve alone violaceo delle insegne al neon appese alle vetrine. Stranieri come me camminano lentamente, si guardando intorno con un sorriso a mezza bocca che tenta di non mostrarsi troppo stupito, perché si preferisce apparire disinvolti. Cammino anch’io lungo la via. Altri locali compaiono alla vista, fuori ci sono gruppi di giovani del luogo che ridono, poco lontano un uomo in divisa da sorvegliante se ne sta fermo a controllare qualcosa, ad essere presenza conscia del proprio ruolo. Quasi mi vergogno a passare davanti a quei ragazzi più giovani di me, belli, dall’aria arrogante di chi, magari con l’audacia illusoria dell’alcol, potrebbe prendersi gioco di chi non appartiene alla loro città. Timore infondato, nessuno sguardo e nessuna parola arrivano a ferire o provocare.

La via si incrocia con un piccolo corso d’acqua, appena un nastro di bagliori argentei sul fondo di un canale. Gli alberi spogli si tendono verso le rive, disegnano venature sottili che ricamano pareti e finestre, lanterne di carta dondolano sul vuoto. Piccoli ponti intervallano questa strada più larga, richiamano nella mia testa il nome del quartiere, un nome che è quello di una delle cartoline della città.

Fa freddo, i calzini dentro gli scarponcini foderati di pelo scivolano e si raggrumano sotto la pianta del piede, sino a lasciarmi il tallone scoperto. Cammino con quel leggero fastidio che pare volermi trattenere dal perdermi totalmente nell’atmosfera. Tutto è penombra, le luci non sono mai troppo forti qui, punteggiano e creano pozze di chiarore invece di sfolgorare come altrove. Tutto intorno pare di essere in un gioco di angoli e scorci che rivelano facciate di locali, ognuno con una sua bellezza, moderna o tradizionale. C’è un altarino in un angolo, di poco sollevato dall’asfalto, a suo agio vicino a cassette di bottiglie vuote. Un jizo, che si riconosce per la forma, i lineamenti sono in parte lisciati dal tempo, davanti a lui offerte spontanee.

Qualche passo più in là mi porta al grande fiume, a un ponte che balza verso l’altra riva. Mi pare di essere immersa nel nero di una notte che rende il cielo laccato, tutti gli edifici intorno che non desiderano disturbare quel colore avvolgente se non con il bagliore di luci dai toni dorati. I suoni giungono a mazzetti: qualche risata, la musica di un locale vicino, un’auto che passa. Si alternano, mai tutti troppo insieme. Mi sento un’ospite in una antica dimora enorme, che ha le dimensioni di una città intera. Non voglio che la mia presenza possa disturbarne l’atmosfera.

Scivolo verso un’altra delle cartoline del luogo, una via accostata al fiume, di cui si intuisce sempre la presenza, sebbene si cammini con una sequela di locali ad abbracciare i fianchi a destra e a sinistra. Legno, linee che raccontano altri tempi. Se non fosse per altri stranieri come me, che vedo immobili più avanti ad esitare, a pensare se cercare un posto in cui provare a diventare davvero parte attiva della suggestione, penserei di stare dormendo, e di percorrere le vie di un Giappone di sogno.

Ci sono pozze di oscurità accanto a porte scorrevoli che ritagliano pozze di luce d’oro o bagliori più freddi di neon, calore e chiarore di interni. A sporgersi appena in queste aperture di pece si viene inghiottiti, si intuiscono spazi privati ed ignoti che il rispetto impone di non oltrepassare. Scorgo i volti di qualche cuoco o barista spezzettati da listelli di legno e riquadri di finestre, appena per un istante. Vorrei fermarmi a lungo, restare per un’eternità a cogliere ogni particolare, ma non posso fare a meno di scorrere in avanti, sfiorando dettagli come se mi trovassi su una barca che scivola lungo il fiume mentre sulle sue rive si svolge una processione.

Un ragazzo suona la chitarra cantando una canzone in inglese, in uno spiazzo verde che si apre ad intervallare la viuzza: intorno ha tanta gente, giovani in viaggio che vogliono dimostrare tutto il loro impegno nel fargli comprendere quanto lo apprezzino. Trovano parte dell’esperienza interpretare il ruolo di chi deve fermarsi ad ascoltare quello che potrebbe ascoltare ovunque, perché sono entusiasti e incantati, e gli artisti, in ogni luogo, sono quelli che più di tutti spargono attorno a sé un’aura di libertà e condivisione.

Altri locali, la via si restringe di nuovo, torna carezza di legno, dimensione intima. Lanterne di ogni dimensione ricordano dove siamo, promettono ristoro. Una donna matura esce da un locale, i capelli corvini raccolti, un lieve sorriso, indossa un kimono dai colori tenui con un’eleganza e una naturalezza che pare emanazione stessa dell’aria. Un’altra donna della stessa età le si affianca, leggiadra in un kimono altrettanto sobrio e bellissimo. Si mettono l’una di fronte all’altra e si rivolgono diversi inchini, congedandosi l”una dall’altra. Ookini, le sento dirsi con un leggero tono nasale, grazioso. Tra me e me, mentre passo oltre e lo sguardo resta trattenuto dalla bellezza, ringrazio per aver potuto assistere a questa scena.

La via termina e si apre lungo le strade principali, qui la luce è più forte, la gente più numerosa. Resta tutto intorno quell’impronta di via commerciale che muta nell’aspetto ma non nell’atmosfera. Questa città racconta la sua storia ad ogni angolo, ma non ama mostrarsi, vuole essere riconosciuta da chi tenta di cercarla. Incanta nei suoi angoli di bellezza più palese, quella bellezza che sa parlare a tutti, ma resta silenziosa e in attesa di chi ricorda qualcosa che pure non ha mai vissuto.