Nell’estate del 2016 visitiamo Kobe, città che ha fama di essere tra le più belle del Giappone per la sua posizione, con le colline alle spalle e il mare davanti, e la sua modernità. In effetti, la troviamo davvero bella, moderna ed interessante. Un luogo in cui verrebbe voglia di vivere. Da Kobe, prendiamo un trenino che si dirige verso Suma, dove vogliamo fare una puntata per cercare un complesso di templi la cui storia è strettamente legata alle guerre Genpei (1180 – 1185), che videro contrapposti i clan Taira e Minamoto, e le cui vicende vennero immortalate nell’opera Heike Monogatari, la storia degli Heike (altro nome con cui veniva identificato il clan Taira, che da questa guerra uscì sconfitto).
Arriviamo a Suma e il paesaggio che ci si presenta davanti, mentre scendiamo dal treno e lanciamo uno sguardo al mare oltre le vetrate del piano superiore della stazione, mi lascia per un attimo perplessa ma in modo piacevole, come se mi trovassi di fronte a qualcosa che non mi aspetto e che scopro con un certo entusiasmo. C’è una spiaggia, animatissima in questo pomeriggio di agosto. Decidiamo di fare un giro, prima di andare alla ricerca dei templi che si trovano verso le colline. Scendiamo la scalinata che dalla stazione conduce direttamente alla spiaggia e intorno vediamo un sacco di giovani. Una ragazza vestita in abiti scuri se ne sta seduta sui primi gradini della scala, proteggendosi all’ombra della struttura della stazione. Ma intorno tutti sono in costume. Mi sembra davvero strano vedere tutti quei giapponesi, che sino a quel momento avevo sempre e solo visto in contesti cittadini, in costume da bagno, i ragazzi abbronzatissimi, chiassosi, riuniti insieme alle ragazze sotto i gazebo in bambù e foglie di palma di locali e bar, o lungo la riva. Mi sento improvvisamente cogliere dalla nostalgia di tante estati della mia adolescenza, in un contesto molto più vicino a casa mia. Ora sono dall’altra parte del mondo ma le atmosfere, le risate, la spavalderia, gli sguardi speranzosi di piacere e di vedere chi piace sono gli stessi.
Camminiamo nella zona lastricata della spiaggia, io tengo in mano la bottiglietta d’acqua che ho appena preso, e schivo i ragazzini che con l’entusiasmo e la goffaggine della loro età non stanno troppo attenti a dove vanno, magari mezzi voltati a parlare con un amico alle loro spalle, facendo la voce grossa. Dei sorveglianti, in maniche corte ma pur sempre in divisa completa, controllano la situazione, passeggiando con aria tranquilla ma vigile. Resto stupita da quanti ce ne sono. Questa è una differenza sostanziale rispetto alla spiaggia dei miei ricordi di ragazzina. La musica alta dal locale accanto al quale passiamo rimbomba tutto intorno, mentre il profumo di creme solari, di pelle scaldata dal sole, di frutta e di mare crea quell’inconfondibile sentore di giornata di vacanza estiva.
Il misto tra sensazione di famigliarità per tale situazione e di straniamento perché mi trovo in Giappone e sono solita associarlo ad immagini diverse, e non a concepire dei giapponesi un po’ tamarri in costume da bagno, mi coglie impreparata ma mi rende davvero felice. Ecco un altro lato del paese che mi si svela, non ci ho mai pensato ma questa scena di vita quotidiana sembra volermi ricordare che sono in un luogo vivo, dove la gente fa esattamente le stesse cose che si fanno anche da noi, in un pomeriggio d’estate in una località balneare. E mentre mi ripeto che davvero tutto il mondo è paese penso anche che questo iniziale stupore è stato un po’ ingenuo da parte mia. Penso a tutti i manga che ho letto in cui, immancabilmente, prima o poi, c’è sempre la gita al mare con le grandi aspettative dei protagonisti di turno che non vedono l’ora di ammirare le ragazze di cui sono innamorati in bikini. Mi sembra di vedersi svolgere quelle scene proprio davanti ai miei occhi.
Involontariamente sorrido, anche se con i miei vestiti addosso comincio ad avere davvero caldo, con il riverbero del sole sulla sabbia e il caldo implacabile dell’agosto giapponese. Verrebbe voglia di unirsi a questa atmosfera, a questo paesaggio. Ma non sono in costume. Mio marito dice che è un peccato non essersene portati dietro uno. Io obietto subito che mi sarei vergognata troppo per mettermelo, e starmene lì in riva al mare con intorno quei giovani che mi sembrano tutti così leggiadri e parte del luogo, pur nella rozzezza allegra che dimostrano alcuni.
Questa è stata la mia prima spiaggia giapponese.
Negli anni successivi ci capiterà di passeggiare lungo la spiaggia di Fukuoka, e di trovare del tutto normale l’atmosfera che nella nostra prima volta ci aveva così colpiti. Anche qui tutto appare famigliare eppure con delle sottili differenze che mi fanno rendere conto che sto osservando la quotidianità di qualcun altro, che vive lontanissimo dai luoghi a me davvero famigliari. Ad esempio, non vedo ombrelloni ma solo grandi tettoie di legno con dei teli sotto alle quali la gente si distende con gli asciugamani. Ci sono zone in cui i ristoranti e i locali arrivano praticamente sull’acqua. Vedo un piccolo ristorante simil-italiano con un nome assurdo e la statua di un cuoco baffuto all’esterno, che mi sottolinea come non mai il fatto che non siamo certo in Italia. Altri locali hanno i posti all’aperto, sotto a delle verande di legno e paglia, e servono frutta, gelati, okonomiyaki e takoyaki. Il mare di fronte è un altro mare, le isole piene di verde che lo animano hanno nomi che non conosco. Ci sono famiglie con bambini che giocano tra gli zampilli di una fontana: una famiglia di turisti occidentali guarda sorridendo i propri figli che si uniscono ai bambini del luogo per giocare con l’acqua. Su un molo poco lontano, che si stende verso il mare, un bambino lancia la lenza e si mette a pescare. Mi viene una facile battuta circa Sampei che ancora una volta mi fa rendere conto di quanto i manga e serie animate possano essere visti in alcuni casi come uno specchio della realtà. Restiamo per un po’ a guardare il ragazzino che pesca, poi temo che come la sua controparte della serie animata possa tirar su qualche pesce mostruoso ed aggressivo e torno a passeggiare attraverso la pineta che accompagna il lungomare. Vicino a dei bagni pubblici che si trovano all’ingresso della spiaggia, una bambina si lava i piedi sporchi di sabbia sotto il getto di un rubinetto.
Ho amato questi pomeriggi nelle spiagge giapponesi, e spero di trascorrerne altri, di conoscere altri posti. Anche non sentendomi ancora così a mio agio da voler far parte della gente che se ne sta disinvolta in costume, o anche solo da azzardare di togliermi le scarpe ed andare a mettere i piedi a mollo in acqua, passeggiare ammirando il mare, in un’allegra giornata di vacanza, mi fa sentire quasi come a casa. Quelle spiagge dei miei ricordi e delle mie esperienze che, per assurdo, nella loro realtà attuale sembrano assomigliare sempre di meno a quanto ho amato, probabilmente perché io non sono più la stessa. O forse è il Giappone che in realtà è il luogo dove alcune delle atmosfere che vagheggiavo e sognavo durante la mia adolescenza ancora vivono per me, ora che sono adulta.