La fiera delle parole, di Otokawa Yūzaburō, è un romanzo che intreccia una storia d’amore al tema dello scegliere di dedicarsi al mondo della traduzione. Siamo negli anni Ottanta. Hiroyuki e Yūko sono compagni di università, studiano entrambi lingua inglese. Lui è calmo, incerto, non riesce ad esprimere sempre quello che vorrebbe dire. Lei è decisa, volitiva, pare trarre un particolare gusto nel punteggiare i propri discorsi con parole precise ed espressioni argute e ardite. Hiroyuki, spronato da Yūko, comincia ad entrare nel mondo della traduzione letteraria, e questa, da attività che prova senza particolare convinzione, diviene quanto capisce di voler fare nella vita. Yūko invece intraprende la carriera di interprete simultanea, e si dimostra pronta a fare qualsiasi cosa per portare avanti il proprio obiettivo nel modo che ritiene sia migliore, nonostante le difficoltà.
Nel corso degli anni, i due proseguiranno ognuno nel percorso della propria carriera, e continueranno a perdersi e ritrovarsi, senza mai trovare un punto fermo nella propria complicata relazione. Yūko appare imprevedibile, sempre di corsa, sempre tesa verso una meta successiva, inquieta. Hiroyuki non riesce ad afferrarla, non può far altro che cercare di stare al suo passo quando lei gli permette di seguirla, facendo tesoro di quelle conversazioni e stimoli intellettuali che solo lei sembra essere in grado di dargli. Conversazioni circa le parole e il loro valore, circa lo scopo dei loro rispettivi lavori dove il consegnare parole straniere alla propria lingua madre, seppur ottenuto con metodi del tutto diversi, è la soddisfazione più grande e la lotta più ardua.
Ho trovato questo libro molto particolare, perché è la prima volta che leggo un romanzo in cui l’attività del tradurre è la vera protagonista di tutta la vicenda. Vengono espresse teorie, si parla di metodologia e si riflette continuamente su quali siano le molte difficoltà del lavoro di traduttore e di interprete simultaneo. E tale argomento non passa attraverso una lente eroica o semplificata per servire ad altre eventuali funzioni della storia. Il cercare l’espressione più adatta nella lingua di destinazione, la consapevolezza e la tentazione di poter migliorare un testo, i gusti personali che vanno ad influenzare quanto si desidera tradurre, il rapporto misterioso che si instaura tra scrittore e traduttore, la routine di una vita che impone moltissime ore in cui spremersi le meningi. E per quanto riguarda la traduzione simultanea, l’ansia del poter solo immaginare a grandi linee cosa potrebbe dire la persona le cui parole devi tradurre, la fatica anche fisica, il modo di ragionare diverso cui deve adattarsi la mente rispetto ad una traduzione letteraria, dove si ha tempo di pensare. Gli errori che non possono essere rivisti. Si tratta sempre di parole e del trasportarle e trasformarle, ma i principi sono del tutto diversi, e corrispondono a talenti e capacità personali diversi.
E tale diversità si riflette nei due personaggi principali, ai quali si affiancano altri personaggi che li accompagnano nella loro crescita, divenendo adulti insieme a loro e scegliendo altre strade parallele o del tutto diverse, oppure facendo da mentori o confidenti. La storia si sviluppa in un ampio periodo temporale, con diversi salti anche di parecchi anni, seguendo i protagonisti dall’università sino alla mezza età, e narra il punto di vista di Hiroyuki, sempre alla ricerca della bella frase, pieno di dubbi e desideroso di migliorare anche il proprio giapponese insieme all’affinare le proprie capacità di traduttore. Apparentemente fermo in una sorta di stasi, perché non appare per indole incline a grandi slanci, dentro di sé lotta continuamente con le parole, con una passione che non lo abbandona mai. Il pensiero di Yūko è sprone a dare il proprio meglio e al tempo stesso è tormento, perché sa di non poter mai davvero considerare costante la sua presenza, o di poterla trattenere.
Le riflessioni sul tradurre e le teorie e metodologie legate a tale attività riguardano la traduzione inglese americano-giapponese, e quindi ne La fiera delle parole i ragionamenti di Hiroyuki sono spesso molto specifici circa caratteristiche e strutture della propria lingua, e circa la resa di alcune suggestioni tipiche della letteratura americana che si perderebbero del tutto nel tentare di restituirle ai lettori giapponesi così come sono. Al tempo stesso Hiroyuki comprende che quanto lo scrittore si augura è che le proprie parole originarie, con le quali ha a sua volta lottato per esprimere esattamente in un certo modo quanto voleva comunicare, possano restare il più possibile, senza essere troppo “tradite”.
Il romanzo stesso mi è apparso una sfida non da poco per la traduzione, proprio perché si parla spesso di questioni tecniche e di teorie complesse circa la resa nello specifico dell’inglese americano al giapponese, quindi per tradurlo in italiano credo si sia reso necessario un ulteriore salto, restando al tempo stesso il più fedeli possibile al testo giapponese e restituendone ritmo, intenti e suggestioni. Quando non si parla strettamente di parole e traduzione, ad esempio nelle descrizioni di paesaggi o riflessioni sulla vita privata e le relazioni tra persone, La fiera delle parole è un romanzo molto dolce e lirico, spesso intriso di nostalgia circa il tempo che appare perduto e le occasioni che non si sono colte.
Il lottare con le parole di Hiroyuki è la consapevolezza che ci sarà sempre qualcosa che non si potrà afferrare del tutto o rendere con la massima perfezione, perché spesso tradurre è anche passare da una cultura all’altra cercando di restituire il modo di intendere le cose della cultura in cui è immerso lo scrittore senza rendersi incomprensibili al lettore in un’altra lingua. Si tratta di gettare un ponte tra lingue e mentalità, restituire paesaggi e abitudini che potrebbero non toccare mai in prima persona il lettore della lingua di destinazione nella propria realtà quotidiana.
Tale lotta è quella che Hiroyuki stesso deve affrontare anche con i propri sentimenti, che per ironia della sorte non riesce mai ad esprimere come vorrebbe, con parole che possa pronunciare e possano avere il potere di cambiare le cose. Sentimenti spesso calpestati da Yūko, che non attende nulla e nessuno, persona veloce nel prendere decisioni e nell’andarsene e tornare, quasi come se rispecchiasse nel carattere e nelle azioni l’immediatezza dell’interpretariato simultaneo, dove ti giochi tutto nel presente, e dove non si può far altro che andare avanti, senza esitare un solo istante e pensando solo successivamente ad eventuali errori o rimpianti. Yūko che prosegue sempre più in là di sé stessa, lottando da sola con i propri problemi e con la volontà di superare ogni limite che il destino le ha imposto, senza però mai riuscire a tradire davvero del tutto quanto la lega a Hiroyuki.
Un libro che va letto con calma, estremamente denso di temi legati al mondo vasto, affascinante e forse spesso troppo sottovalutato e semplificato della traduzione. Una storia d’amore particolare, che si discosta da qualsiasi romanticismo e risulta al tempo stesso dolce e dolorosa.
- La fiera delle parole, di Otokawa Yūzaburō, traduzione e cura di Eleonora Blundo, Atmosphere Libri