“Non puoi capire, non sei giapponese”. Una frase che ricorre più volte nel libro che ho appena finito di leggere, il bellissimo Where the Dead Pause, and the Japanese Say Goodbye, di Marie Mutsuki Mockett, autrice di padre americano e madre giapponese. Nonostante sin da piccola abbia sempre frequentato il paese materno, questa osservazione viene rivolta spesso alla scrittrice, da parte di parenti giapponesi o semplicemente da persone incontrate durante alcuni suoi viaggi svoltisi per motivi famigliari o personali dopo il terremoto del Tohoku del 2011. Vi consiglio la lettura di questo libro (in inglese), è profondamente toccante ed interessante, racconta di un viaggio in cui si affronta il tema della perdita, del dover dire addio alle persone amate, del dolore e di come riuscire a conviverci, dei rituali che accompagnano il distacco e di come possano in qualche modo lenire l’insopportabile.
Tuttavia, la riflessione collaterale che questo libro ha indotto in me è stata proprio quella di cui sopra. C’è, è indubbio, in molti giapponesi, questo atteggiamento del ritenersi una realtà culturale compatta che, grazie all’armonia gelosamente custodita e al forte senso della collettività, crea quell’impressione di un sentire comune che gli esterni, la “gente di fuori”, non può capire. Anche se questi esterni sono persone che simbolicamente hanno un piede già oltre la loro soglia, e si destreggiano tra le contraddizioni di due mondi, finché qualche presunto detentore di quell’unicità non ritiene di fargli notare che no, loro non potranno mai far parte davvero dello spirito giapponese.
Un’esclusione dal circolo dell’essere giapponese che potrebbe sembrare sintomo di arroganza, di chiusura, e che sicuramente al primo impatto crea fastidio. A nessuno piace sentirsi dire in faccia o percepire l’esclusione che automaticamente pare mettere su un piedistallo irraggiungibile chi invece “può capire”, in virtù del solo essere nato in una certa nazione da genitori che da generazioni si trovano in quella nazione. Soprattutto per chi il Giappone lo ama, per chi lo ha studiato per anni e anni, ci lavora e vive, padroneggia la lingua e ne conosce storia e cultura talvolta anche più degli autoctoni, questo essere liquidati con un “non potrai mai capire davvero” può risultare frustrante.
La cosa particolare è che molto probabilmente sarà proprio a chi conosce il Giappone che questa frase potrebbe essere rivolta. Perché in realtà allo straniero in visita ci si rivolge spesso con il complimento, con la lode per abilità di cui non è davvero in possesso, lode che è semplice cortesia, per non far sentire in imbarazzo, per mettere a proprio agio. Ci si sente dire esattamente quello che vorresti ti venisse detto, scriveva Lafcadio Hearn. E lo scopo del mettere a proprio agio viene raggiunto, in quanto è davvero sincero, pur avvalendosi di qualcosa che per noi occidentali potrebbe essere marchiata come poca sincerità. É forse proprio quando ti viene chiaramente mostrato il tuo limite che in realtà ti si riconosce che la soglia di quella cultura la stai oltrepassando, e che quindi stai creando del turbamento. Perché tu, straniero, stai diventando “quell’altro da sé” che tuttavia rischia di divenire parte di quel quotidiano ritenuto così unico, quell’anomalia con cui doversi confrontare in qualche modo. Sei quel qualcosa che fa capire che non si è giunti a quel che si è semplicemente per grazia ricevuta, e che il mondo è un intersecarsi di culture che inevitabilmente si influenzano le une con le altre, creando scenari sempre nuovi. Sei l’altro che, diventando parte del mio contesto, mi costringe a ripensarlo, o a provare a rifletterci sopra.
Quel “non puoi capire” diventa spesso però anche il fastidio per il turista che vuole fare l’esperienza autentica ma in realtà non la sente, secondo coloro che in quell’atmosfera ci sono nati. Quasi che l’interesse che si concretizza nell’azione in qualche modo possieda sempre i semi della profanazione, della banalizzazione di quanto è prezioso per alcuni. Senza pensare al fatto che magari ci sono persone che vanno davvero oltre l’attrazione turistica (che, bada bene, tu stesso proponi e di cui tu stesso benefici, anche se un pochino ci soffri), e desiderano accostarsi con umiltà e amore per la conoscenza.
Sempre tornando al libro, l’autrice racconta di come, durante la sua permanenza presso il Koyasan, chiese di poter apprendere un certo tipo di meditazione, e le venne consigliato di fare prima una certa cerimonia di purificazione. Venne trattata con grande freddezza durante quest’ultima, alla quale si sottoposero lei, una turista canadese e un anziano giapponese. Lei e la canadese vennero guardate con immenso fastidio dal monaco, il quale, non appena si accorse che Marie parlava giapponese, cominciò a infilare una serie di sprezzanti raccomandazioni sul non fare foto, tenere spento il cellulare, non interrompere la cerimonia per sciocchezze e di istruire anche la sua “amica” circa queste semplici regole di buon senso. Successivamente l’atteggiamento del religioso cambiò, quando si rese conto dell’interesse sincero dell’autrice. Ma il pregiudizio era comunque stato la sua prima reazione. Perché aveva visto due straniere, e dato per scontato che non capissero nulla e fossero lì per semplice intrattenimento, sminuendo in qualche modo la sua cultura.
Una delle grandi contraddizioni del Giappone, tra l’altro, è questo essere geloso della propria unicità e al tempo stesso il voler dimostrare quanto gli piaccia quello che viene dall’esterno. Dinamiche molto particolari, che tuttavia vanno sempre a finire in una rilettura a modo loro anche di quanto è estraneo a quell’idea di Giappone autentico. La novità viene filtrata, diviene altro, sino a divenire l’ennesima espressione della loro stessa cultura (particolarità positiva che già fece notare Claude Lévi Strauss), qualcosa forse anche migliore dell’originale, che nel tempo sedimenta sino a non far riconoscere più la sua vera provenienza. Diviene un altro motivo per dire “questo è un qualcosa di profondamente intriso della nostra sensibilità, che tu straniero non potrai mai capire del tutto”.
Cosa ne penso io? Che quel “tu non puoi capire, sei straniero” è presente in ogni parte del mondo, non è una prerogativa del Giappone, anche se forse in questo paese assume sfumature più profonde che altrove, dove magari è soltanto intolleranza o fastidio per chi viene visto come minaccia a delle presunte radici di cui lo stesso detentore in realtà sa poco nulla.
Ogni nazione vorrebbe custodire gelosamente quella sensazione di essere unica, e di avere un ruolo nel mondo che solo lei può interpretare. Restringendo il macrocosmo di una nazione al microcosmo di una persona, è un fenomeno che è riflesso anche nell’inconscio volersi sentire migliori rispetto agli altri: basta vedere, quando qualcosa ci appassiona, come capiti che una delle prime reazioni sia il voler credere che solo noi possiamo davvero capire quella tematica, che gli altri non ne colgano la vera essenza, anzi, ci dà persino fastidio che vi si accostino. E un po’ come reagiamo noi italiani quando toccano la nostra cucina (esempio divertente ma direi adatto).
Penso che persone arroganti ci siano ovunque, e non rappresentino la totalità della gente di un luogo. Ritengo che purtroppo sia vero che molti non hanno rispetto autentico per il patrimonio culturale altrui, tangibile o intangibile che esso sia, e lo vedano solo come un’occasione di sollazzo momentaneo o moda.
Credo che siano da distinguere il non avere la presunzione di poter mai capire del tutto una cultura diversa dalla propria (io stessa per prima dico che forse non riuscirò mai a capire del tutto il Giappone, e che proprio per questo sono spinta a volerne sapere sempre di più), e invece il serrare delle porte da parte di chi non vuole che ci sia la minima interferenza, o liquida certi discorsi ponendo l’altro nella posizione di chi comunque non riuscirebbe ad arrivare a certi concetti.
É un peccato, un’occasione persa, quel ritenere di non poter essere capiti, perché l’umanità è un insieme di sentire comune, declinato in tanti contesti differenti, adattato alle necessità dovute a storia, natura, società, ma sostanzialmente simile nel suo nocciolo più importante. E su questo nocciolo di simpatia, del sentire insieme, che ci si dovrebbe concentrare per arricchirsi davvero come esseri umani. Non si perde la propria identità o unicità nell’aprirsi all’altro, o nel riconoscere che sì, anche l’altro può provare quello che sto provando io, può capirmi in quanto innanzitutto essere umano come me. Sono un po’ ingenua e mi auguro sempre una sorta di riconoscimento universale del proprio essere umani, con tutte le sfumature meravigliose date dai nostri diversi luoghi di origine. Credo sarebbe l’unica via per avere completezza del vivere insieme su questo pianeta.